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Violenza di genere: la parola agli uomini?

di Enrico Conte

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Conversazione-intervista con:

Giulio Cupiraggi (età 27, neo laureato in economia, Lecce) 

Gabriele De Blasi ( 62, giornalista,Lecce)

Piero Forti ( 33, operatore dei Servizi socio sanitari a Trieste) 

Antonino Guaiana (62, avvocato Foro di Trieste)

Antonio Pistillo (66, promotore territoriale, Italia@friends Puglia)

Pierluigi Rango ( 34, funzionario di azienda privata, Lecce) 

Alberto Sant’ Elia ( 67, danzatore e autore di romanzi, Napoli)

“Solo per uomini”. Così era scritto all’ingresso delle sale Cinematografiche dedicate ai film porno negli anni ’70 del ‘900. Una formula che poteva anche leggersi al contrario …” per uomini soli”, magari  da intendersi non certo perché non accompagnati da una donna, ma per la condizione di solitudine esistenziale, profonda,  che caratterizzava le loro vite, o quanto meno certi momenti. E ciò per un modo di intendere le faccende in fatto di sesso, come un qualcosa di esclusiva pertinenza maschile, e dalla quale  erano tenute fuori le “femmine”.

Madri, madonne o puttane. Questa era la triade nella quale poter collocare la propria compagna-moglie, al di fuori di ciò non esisteva altra possibilità. Una condizione, questa, che non consentiva di dare un nome a desideri e comportamenti che non fossero “allineati”, e prevedibili.

Sarà il femminismo di quegli anni, frutto della rivoluzione dei costumi avviata col ’68, con i movimenti del ’77,  a contribuire a cambiare le cose. Sarà la presa di coscienza da parte delle donne, in Italia con le tappe fondamentali della legge, e del referendum, sul divorzio (1970), della riforma del diritto di Famiglia (1975), delle sentenze della Corte Costituzionale sul matrimonio riparatore o sull’ingresso delle donne nei ruoli delle Prefetture e in Magistratura, e della legge sull’aborto ( n. 194 del 1978), a iniziare a modificare le cosee i rapporti di forza nelle relazioni, private e pubbliche. Il terreno era propriamente quello dei diritti civili e sociali, con conquiste progressiste realizzate in quello stesso periodo che viene rubricato come degli “anni di piombo”. Di quei temi si discuteva non solo in Parlamento ma nelle sedi dei partiti di massa o nei luoghi dove viveva il bisogno di comunità.

Uno degli incontri più accesi ai quali chi scrive ha partecipato si svolse in una Parrocchia, sotto l’occhio vigile del sacerdote e di uomini della DC legati al mondo della Chiesa, mandati a controllare che tutto si svolgesse per il verso giusto, e cioè che le opinioni delle persone presenti restassero nel solco della tradizione.

Andò esattamente all’opposto. Il compromesso storico che avrebbe dovuto portare al governo del Paese, passando dall’astensione, il maggior partito comunista in Europa, era già avvenuto ma sul terreno della contaminazione culturale e della sintesi politica tra la componenti più attente dell’una e dell’altra parte,  capaci di interpretare i bisogni della società.

Nel 1966 esce in Italia, edizione Longanesi, “La condotta sessuale in America e la relazione Kinsey”, si leggeva Simone de Beauvoir… E, fino ad allora… “le ragazze erano sempre minacciate da un senso di vergogna; la loro maniera di vestirsi e di truccarsi era sempre a rischio di troppo: corto, lungo, scollato, stretto, trasparente fino al matrimonio, ogni storia d’amore si svolgeva sotto lo sguardo giudicante degli altri” (Annie Ernaux – Gli anni).

Mezzo secolo dopo i rapporti sociali sono profondamente cambiati ma la prima domanda che rivolgo ai nostri partecipanti è: 

Quella solitudine dell’uomo, del maschio, raccontata, senza dirlo esplicitamente, da quel divieto posto all’ ingresso dei Cinema porno negli anni “70, può considerarsi superata o forse riemerge come un fiume sotterraneo nelle drammatiche vicende di questi anni, i femminicidi, da ultimo quello che ha colpito, con grande risonanza, Giulia Cecchettin, o  attraverso gli insulti sessisti rivolti alle donne sui social?

Piero Forti. Mi riallaccio al gioco di parole nella premessa. Sicuramente ci sarebbe da fare un ragionamento sui significanti “solo per uomini” e “uomini soli”, ma a me sono venuti subito in mente i “solo uomini”. Penso che una delle croci che affligge il mondo maschile – e conseguentemente quello femminile – sia la difficoltà a slegarsi dai preconcetti e dalle stereotipie legate all’idea di maschio. Il tentativo di mantenersi all’altezza delle aspettative di chi ci definisce uomini può essere tanto frustrante quanto limitante. Volendo porre un confine netto tra il proprio genere e gli altri risulta difficile assumere un comportamento basato sull’empatia e mi sembra evidente che la mancanza della suddetta possa avere come conseguenza la violenza fisica e verbale.

Gabriele De Blasi. Attenzione a non considerare questa ipotetica “solitudine” come una possibile strada di “giustificazione – spiegazione – comprensione” per i comportamenti violenti! Io, personalmente, ragiono come padre di due “bambine” di trenta e trentatrè anni: dalla loro nascita, perciò, la mia sensibilità su questi temi è divenuta – probabilmente – parossistica: continuo a credere che tutto ciò che continua a succedere sia frutto del concetto – atavico e maledetto – del “patriarcato”, dal quale moltissimi “maschi” non sanno e non vogliono liberarsi!…

Giulio Cupiraggi. La solitudine dell’uomo contemporaneo è una condizione sicuramente più che presente ancora oggi, anzi, l’iperconnessione e l’ipersessualizazione presenti nei social media -ormai terreni di confronto per le nuove generazioni- hanno esacerbato ancor di più questo fenomeno.  L’enorme quantitativo di tempo trascorso davanti a uno schermo, condito da un continuo bombardamento di immagini pornografiche, che sono ormai entrate nella quotidianità di tutti i giorni, dal mio punto di vista, spinge i giovani a vivere la sessualità in maniera distorta.  Il tempo passato sui social assorbe una buona parte delle nostre giornate e spesso limita le interazioni reali, rendendoci più insicuri e impacciati. In più i contenuti sempre più spinti ed espliciti, portano un’idealizzazione del corpo umano, per ambo i sessi, che si traduce poi nella ricerca di una perfezione estetica inesistente, che genera da un lato un senso di inadeguatezza e dall’altro la necessità di trovare un partner che rispetti quegli standard irreali ai quali siamo ormai abituati. Non è un caso infatti che i dati ci dimostrino come i millennials siano una generazione sessualmente meno attiva rispetto alle precedenti. Spesso ci si ritrova nella condizione in cui scegliere il partner diventa un po’ come trovare il giusto film da guardare su Netflix, si passano ore e ore a guardare Istagram o app di dating per poi rendersi conto che si è fatto troppo tardi ed è ora di andare a dormire.

Nonostante tutto però, non sono certo che i tragici eventi riportati quotidianamente dai giornali siano una diretta causa del fenomeno social o della progressiva emancipazione delle donne. E per quanto la mia opinione possa apparire controversa e contro tendenza, credo che lo scenario sia diverso da quello che viene raccontato ogni giorno. Quotidianamente si parla di femminicidi e di violenza di genere come se fossero una realtà appartenente esclusivamente al nuovo millennio, sempre più dilagante e causa di un problema sistemico che coinvolge ogni uomo in quanto tale, ma penso che quello che giunge a noi sia un lascito del passato che trova riverbero in pochi e malati individui. Di conseguenza, per quanto non si possa certamente ritenere di aver sconfitto questo tragico fenomeno, penso si possano notare i progressivi effetti positivi portati avanti da un mondo iperconnesso, nel quale le donne hanno raggiunto una piena emancipazione. 

Antonino Guaiana. Ci sono stato nei cinema a luci rosse, nei miei anni settanta.
A Trieste c’era un vecchio cinema, il Filodrammatico, meta di ragazzini come me, militari, pensionati. Uomini soli, alcuni temporaneamente, altri forse per sempre. Alla fine delle proiezioni avvertivo in sala una grande malinconia. Nessuno, ragazzini, uomini giovani e anziani, aveva provato sollievo o consolazione nel guardare il sesso praticato in corpi altrui. Non andavamo in gruppi, personalmente andavo da solo, truccando la mia non raggiunta maggiore età (ma mi facevano passare, forse per lucro, forse per comprensione di un ingenuo quattordicenne). Non ho scoperto niente in quei film, ho provato un grande disagio e la malinconica aspettativa di un mondo adulto che non mi attirava particolarmente. Le donne capivo che fingevano nei film di trarre piacere nelle scene girate. Da ciò, già l’idea di una profonda inadeguatezza fisica ma soprattutto esistenziale nella frequentazione di quei luoghi. In quei cinema aspettavo allora rassegnato il mio turno, la famosa “maggiore età” non mi attraeva affatto, se quello che vedevo ne sarebbe stato l’esito inesorabile.

Antonio Pistillo. In sostanza non è cambiato molto. La solitudine dell’uomo si è accentuata perché la donna, con le sue conquiste sociali, ha messo in crisi proprio il “maschio” demolendo il mito del “sesso forte”, quindi alcuni per riscattarsi ricorrono ad una violenza gratuita senza confini tanto da generare il fenomeno dei femminicidi.

Alberto Sant’Elia. Il buio di una sala cinematografica ha sempre invogliato un approccio fisico al di là della trama di un film.  Il cinema a Luci Rosse, ti permetteva non solo di guardare, ma anche di praticare del sesso.  Il buio della sala negli anni settanta, metteva a “riparo” la solitudine dell’uomo e il pensiero della sua sessualità. Quella solitudine era voluta, così come era voluto, l’escludere la presenza della propria donna. Da qui nasce la divisione tra amore e sesso. Perché la donna non era considerata parte della coppia dal punto di vista sessuale, perché solo l’uomo doveva essere padrone di quell’aspetto. E anche per questo motivo, che la donna educata a questa esistenza, accettava passivamente l’ipotesi del tradimento sessuale del marito. Oggi i social permettono, senza dover uscire di casa e affrontare timidezze nell’entrare in certe sale, di vedere qualunque cosa, anche estrema pornografia. Tutto questo, possibile a tutti, “senza limiti di età”. La donna come mezzo del piacere e a ogni suo rifiuto, violenza su di lei.

Pierluigi Rango. È evidente che il divieto nei cinema porno degli anni ’70 rifletteva una società incapace di gestire apertamente la sessualità. Oggi, osserviamo come la mancanza di tale apertura possa ancora contribuire a problemi gravi, tra cui gli atti di violenza contro le donne.

patriarcato

Si è parlato della necessità di una educazione ai sentimenti, come fossero argomenti da trattare in una materia scolastica; si è parlato di patriarcato, che spiegherebbe la considerazione come oggetto di possesso della propria donna, all’interno di un rapporto gerarchico.

Piero Forti. Troppo spesso si considera la scuola come un luogo di diffusione di un sapere pratico. Quel che la scuola dovrebbe lasciare – e verosimilmente lascia – oltre alle hard skills, è tutto un insieme di competenze emotive a cui un confronto pressoché quotidiano con l’altro inevitabilmente educa. D’altra parte, fin dall’infanzia, con le modalità proprie di ciascuna fase dello sviluppo, la scuola è il luogo dove avviene il confronto con persone dell’altro sesso, dove si impara a riconoscerne dapprima l’esistenza e poi l’insieme di divergenze e affinità. Detto ciò, temo che il problema non sia tanto la scuola, bensì ciò che viene trasmesso all’interno delle mura di casa. Le dinamiche osservate tra le proprie figure genitoriali sono determinanti rispetto a come un individuo poi va a interpretare le relazioni sentimentali.
Mi scuserai se mi ripeto ma anche qui penso che il tema centrale sia l’empatia. E’ praticamente impossibile intendere l’altro come una proprietà, dal momento in cui lo consideriamo un soggetto e non un oggetto. Talvolta però risulta ingannevolmente più semplice concentrarsi sul controllo di elementi esterni piuttosto che sull’autocontrollo e, nel fare questo, ci troviamo a ridurre gli altri a figure dotate di una minore complessità: bidimensionali. Emozioni e sentimenti appartengono di più all’universo femminile sempre secondo i già citati stereotipi. Il rifiuto persistente di riconoscere alla mascolinità il diritto all’espressione di reazioni da “femmina” (femminuccia) genera in primo luogo una repressione e direi in un secondo momento un  senso di disagio che può generare aggressività. Necessariamente l’essere femminile subisce la stessa dinamica al rovescio, per cui non potendo esprimersi in modo aggressivo, si trova a dover dare luogo a comportamenti meno spontanei, con tutte le conseguenze che ciò può comportare a livello psicologico.
La separazione tra sesso e sentimenti è quanto di più soggettivo ci possa essere: per qualcuno c’è, per qualcuno non c’è e per qualcun altro dovrebbe essere il contrario di come stanno le cose attualmente. L’importante in questo caso è la consapevolezza; l’essere in contatto con se stessi e con ciò che veramente si desidera, tenendo sempre a mente che ciò può anche cambiare in base ai contesti senza dover smarrire la propria identità.

Gabriele De Blasi  La scuola, la famiglia, la parrocchia… Dovrebbero essere queste le “agenzie educative” delegate ad “insegnare” i sentimenti?. Per secoli, il “patriarcato” è stato veicolato, promosso e propagandato anche da queste “istituzioni”. Sono piuttosto pessimista, anche riflettendo sulla discutibile scelta della prima Presidentessa del Consiglio donna della Repubblica, che ci tiene così tanto a farsi chiamare “il Presidente”.

Giulio Cupiraggi. Penso che portare avanti una sorta di educazione sentimentale, a prescindere dal fenomeno della violenza di genere, sia più che giusto. Preparare i giovani alla complessità dei sentimenti, specialmente quelli più forti come amore e rabbia, non può che avere un impatto positivo sulle loro vite, permettendogli di fare delle scelte più consapevoli sotto ogni aspetto, migliorando non solo il loro modo di interagire con gli altri, ma anche la loro capacità di compiere scelte personali che andranno ad influenzare le loro vite. Quando si parla di patriarcato, la prima immagine che mi viene in mente è quella di un sistema distorto e malato in cui le donne non hanno possibilità di esprimersi, di avere desideri e di emanciparsi, ma non credo sia una condizione che appartenga più con pienezza ai paesi civilizzati dei nostri tempi. Sicuramente è esistito un tempo non troppo lontano in cui l’uomo limitava la liberta della donna ed è possibile vederne le dirette conseguenze ancora oggi, ma credo anche che si tratti soltanto di una questione di tempo e di ricambio generazionale prima di estirpare definitivamente queste ultime forme di disuguaglianza. Però non penso si possa più considerare come un problema sistemico o collettivo Il senso di possesso e di superiorità gerarchica nei confronti di una donna; mi sembra un problema legato a sacche di individui che non hanno saputo accettare i mutamenti sociali o che non sono venuti a contatto con una realtà più moderna, restando confinati in mondi che la cultura non riesce a raggiungere.

Antonino Guaiana. Sono stato cresciuto dalle donne, in un regime di felice matriarcato. Nonne, zie, cugine, come tante madri e sorelle. Alla mia non giovanissima età non ho ancora compreso cosa sia il patriarcato. Il grande patriarca della mia famiglia, mio nonno materno, era un uomo gentile, che adorava le donne e se ne lasciava ispirare.  Lui era amato, prima che rispettato. E’ stato il mio esempio per tutta la mia esistenza.

Antonio Pistillo. E’ un possesso fasullo della personalità della donna che ha la possibilità di distinguersi nel lavoro, nel sociale, nel politico, nello spettacolo, nello sport. L’uomo si è sentito sempre più indebolito e molte volte cerca riscatti denigrando anche con attacchi verbali la donna.

 Alberto Sant Elia.   La necessità è quella di saper convivere gli uni con gli altri, con un comportamento civile, con empatia e condivisione dei ruoli da far scaturire in modo spontaneo quell’educazione ai sentimenti che diventano amore e amicizia. I giovani vivono, senza accorgersene, la loro solitudine con il loro moderno computer, nella loro camera, ini casa. Sentendosi protetti e vivendo il mondo attraverso un display, senza alcun confronto personale, inviando messaggi, maturando così la loro personalità e diventando uomini sentimentalmente ineducati.          

Pierluigi Rango. Affrontare il patriarcato in modo risolutivo richiederebbe uno sforzo colossale a livello globale. Le dinamiche vissute nell’Occidente si riflettono ampiamente in molte parti del mondo, talvolta in maniera più accentuata. In Italia, riconosco che c’è un impegno nel comprendere il fenomeno. Questo è un punto di partenza. Tuttavia, l’inclusione di temi come l’educazione emotiva e relazionale nei programmi scolastici potrebbe costituire un passo significativo verso la costruzione di una società più equa e consapevole.

Le emozioni e i sentimenti sono ancora, per lo più, patrimonio esclusivamente femminile? E sesso e sentimenti sono ancora troppo separati?

Gabriele De Blasi.  Né l’uno, né l’altro! Dipenderà sempre dai singoli individui: dalla loro capacità di rispetto nei confronti dell’altra/o. Amare qualcuna/o vuol dire volere e cercare il suo bene. Tutto questo dovrebbe essere alla base di qualsivoglia rapporto sentimentale! Al di fuori di ciò, occorrerebbe chiamarlo con un altro nome!

Giulio Cupiraggi. No assolutamente, gli uomini di oggi, e i ragazzi in particolar modo, vivono quasi tutti serenamente le loro fragilità, senza sentirsi a disagio nell’esternare i propri sentimenti.  Anzi, da un certo punto di vista, sembra quasi ci sia stata un’inversione di ruoli, con uomini molto più sensibili e donne molto più apatiche e sentimentalmente egoiste. La distinzione fra sesso e sentimenti invece penso si sia accentuata e credo sia corretto così. E’ giusto comprendere come sia possibile amare i propri compagni e allo stesso tempo desiderare fisicamente altre donne o uomini. Se riuscissimo ad accettare questa possibilità e a normalizzare questo comportamento, credo ridurremmo quel senso di possesso che si prova nei confronti del partner e riusciremmo a costruire delle relazioni più sane e mature, molto più incentrate su un affetto reale.

Antonino Guaiana. Forse eravamo ragazzi strani, forse il vento di Bora ha raffreddato i nostri impulsi testosteronici, ma ci siamo emozionati spesso. La gestione delle emozioni passava per tante letture, divoravamo gli autori  classici, ma anche i fumetti e le canzoni dei poeti di allora, i cantautori.
Ho consumato i dischi di Fabrizio De Andrè, sui solchi dei suoi dischi mi sono infilato e lasciato andare, come dentro ad una spirale magica.  A proposito di sesso, non eravamo troppo informati. Ritornando alla parola “spirale”, ricordo che una fidanzata mi disse che l’aveva messa e che potevamo far l’amore tranquilli. Sesso e sentimenti erano la nostra complicità: la sua era la sapienza femminile, la mia rispettosa  timidezza di uomo (ancora oggi non conosco bene come funzioni il contraccettivo “spirale” … )

Antonio Pistillo.  Non sono d’accordo assolutamente, le emozioni sono sentite da ambedue i soggetti. Quando vi è un amore profondo, non solo associato al sesso, ma all’empatia che due persone complementari  formano nello stare insieme. 

Alberto Sant’Elia. Forse la donna è più capace di gestire le proprie emozioni, rispetto all’uomo che ha più problemi nel manifestarsi, perché, probabilmente ha paura di dover accettare dei rifiuti. Oggi la donna ha assunto un ruolo professionale e intellettuale soprapponendosi all’uomo e questo rende l’uomo stesso debole e incapace di gestire tale situazione.  In questa difficoltà di rapporti, l’uomo sembra aver perduto quella complementarietà, che deve esistere, tra amore e sesso. 

Pierluigi Rango. Patrimonio esclusivo delle donne. Consideriamo la musica classica: compositori come Mozart, Beethoven, Bach e Chopin, tutti uomini, hanno dimostrato con la loro musica la capacità di suscitare emozioni. Questo perché erano in grado, loro in primis, di provare emozioni profonde e tradurle in musica. La nostra cultura occidentale ha radici in questo approccio. Sebbene si possa notare che l’accesso a certe forme d’arte fosse limitato per le donne, adesso c’è maggiore equità.  I sentimenti sono esperienze umane universali. E’ ciò che ci caratterizza come esseri umani, non sono vincolati a un genere specifico. Uomini e donne vivono una vasta gamma di emozioni ogni giorni, tra cui amore, gioia, tristezza, rabbia e molte altre. Di fronte alla musica, alla danza o all’arte in tutte le sue forme, uomini e donne vibrano all’unisono. L’esperienza di un concerto musicale in uno stadio rende bene questo concetto perché fa comprendere che in realtà questa separazione non esiste.

Il “Bar dello Sport” era un luogo dove i maschi si ritrovavano, sentendosi autorizzati e rinforzati, dall’ essere in gruppo, a offendere e sopraffare i più deboli, comprese le donne. La rete è forse diventata uno spazio pieno di “Bar dello Sport”? E il PC la sede nella quale si continua a consumare la propria solitudine?

Piero Forti: più che moltiplicare i Bar dello Sport, la rete ha contribuito a renderne pubblici i discorsi, per giunta dilatandone il tempo. I contenuti e il linguaggio propri di certi luoghi fuoriescono, diventando consultabili da chiunque, in qualsiasi momento. La cosa ha due risvolti: il primo è che le persone oggetto di questa violenza ne vengono raggiunte in numero esponenzialmente maggiore, direttamente ma anche indirettamente, magari attraverso l’esposizione a conversazioni altrui o tramite mezzo stampa; il secondo è che chi questo linguaggio lo usava solo al bar ora viene smascherato, talvolta anche subendo conseguenze non proporzionate all’offesa o dettate da logiche non sempre garantiste. L’interazione virtuale è spersonalizzante e rende ancora più difficile la già complessa e cognitivamente costosa percezione dell’altro come soggetto. Inoltre la mancanza di reazioni immediate e non verbali da parte degli interlocutori porta ad esprimere i concetti in maniera più spontanea, senza filtri. Per quanto ciò possa suonare e tratti essere anche positivo, ha tendenzialmente conseguenze negative. Inoltre questa già citata spersonalizzazione rende le interazioni più facili da fruire sia a livello pratico che emotivo, surrogandole e soddisfacendone il bisogno ma in maniera parziale, viziata e insufficiente.

Gabriele De Blasi.    La rete, con i social, sembra essere assai peggio del “Bar dello Sport”: ne abbiamo avute dimostrazioni pratiche anche recentemente, nel “dibattito” politico salentino… L’aspetto peggiore, oltretutto, sta nel verificare come il “potere della tastiera” garantisca – apparentemente – all’autore un’impunità tale da permettergli – spesso – di poter agire senza la necessità di dover celare la propria identità…


Giulio Cupiraggi.
 Credo che la risposta corretta sia in parte. Internet e i social sono diventati una valvola di sfogo delle masse, dove gli individui si esprimono brutalmente, pensando che quello che viene detto online non abbia implicazioni sul quotidiano, quando in realtà sappiamo che il vivere moderno è la conseguenza di una vita On-life. Però ridurre il web solo a questo sarebbe ingiusto. Al giorno d’oggi è il mezzo più potente che abbiamo per dare voce a tutti e portare avanti le battaglie sociali che si combattono continuamente.


Antonino Guaiana.
I Bar dello Sport li ho frequentati nelle “Osmize” dell’altipiano carsico. Andavamo a bere il vino rosso ferroso ed eravamo tutti ragazzi, e poi giovani uomini. Non abbiamo mai fatto menzione delle donne in modo volgare. Venivamo dalle lezioni universitarie, e guardavamo le splendide ragazze che seguivano le lezioni. Ma nei nostri discorsi si parlava poco di loro, delle ragazze. Ognuno coltivava un suo amore, io corteggiavo una studentessa di Modena, ed ero emozionato come un bambino. Ci fu anche una bellissima storia d’amore fra me e lei, e smisi di frequentare i luoghi del vino con gli amici maschi. Eravamo tutti innamorati, sparivamo dentro ai nostri sogni. Forse ci siamo salvati dalla volgarità del gruppo, dalla battuta volgare, perché non facevamo gruppo: eravamo “quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo”, cantava Gino Paoli. Proprio così, sognavamo di cambiare il mondo. Devo dire che il mondo non ci ha cambiati, oggi superati i sessant’anni, continuiamo ad innamorarci, abbiamo solo diminuito il vino e i caffè …

Antonio Pistillo. Esatto i Bar dello Sport o i saloni da barba prettamente maschili avevano la tendenza, e l’hanno tuttora, alla denigrazione della figura femminile, una sorta di teoria di gruppo in base alla quale  la donna era quella che soddisfa i bisogni dell’uomo, teoria che sembra assurda ma molto diffusa.

Alberto Sant Elia.  I “Bar dello Sport”, se pur luoghi di maschilisti e pettegolezzi, rimanevano l’unico vero sfogo in un paese. Erano tutti in presenza e responsabili di quel che dicevano. Mantenevano un certo romanticismo, perché erano fatti di persone ed è difficile poterli paragonare agli attuali gruppi social che scandiscono ritmi e tempi diversi.  Il computer con internet è il luogo della illusione democratica. Il luogo dove ognuno dice la sua opinione credendo di essere padrone della verità, utilizzando un mezzo che lo protegge per la sua non presenza e così può offendere, accusare chiunque senza portare con sé nessuno scrupolo. L’utilizzo di questo prodotto della nuova tecnologia, ci da tanti vantaggi, ma ci tiene distanti dalle strade, dalle piazze, dagli incontri casuali, dallo stringere una mano o abbracciare un amico. La solitudine lo incornicia da solo, in una stanza davanti a un display dalla luce abbagliante, senza nessuno che gli possa dire da vicino, stai sbagliando.

Pierluigi Rango In alcuni casi la rete può assomigliare a un “Bar dello Sport” digitale, dove alcuni individui si sentono autorizzati a offendere e sopraffare gli altri, comprese le donne. Il PC può diventare una piattaforma in cui alcuni consumano la propria solitudine attraverso comportamenti negativi e sfoghi online. Ogni strumento può essere virtuoso o vizioso a seconda di come viene utilizzato.

American Girl in Italy, 1951, copyright 1952, 1980 Ruth Orkin, con l’autorizzazione del Ruth Orkin Photo Archive

“L’odio e la violenza verbale diventano inaccettabili e, quando si propagano, intossicano la società”, ci ha ricordato recentemente il Presidente Sergio Mattarella. Viviamo forse un periodo che, complice l’immediatezza dei Social, agevola l’uso irresponsabile delle parole?…… “Il linguaggio rivela il mondo interiore del parlante” ( Gustavo Zagrebelsky)-….o c’è qualcosa di più profondo e che tocca l’attuale inconsistenza-incostanza dei rapporti tra le persone?

Piero Forti I Social hanno sicuramente un impatto sulla consistenza dei rapporti, in quanto li diluiscono. L’effimero appagamento dato dal sentirsi connessi col mondo limita il nostro reale bisogno di relazionarsi con gli individui, le persone. D’altra parte – in quest’ottica – mi riesce anche difficile parlare di odio e violenza come normalmente andrebbero intesi, in quanto anch’essi, pur essendo evidentemente manifesti, risultano esserlo in maniera annacquata. Sicuramente certi atteggiamenti hanno un impatto concreto sulla società ma, anche al fine di comprenderli ed eventualmente trovare delle contromisure non si può metterli sullo stesso piano delle loro manifestazioni nella “vita reale”.

Gabriele De Blasi.  Non tralasciamo il fattore “ignoranza”! Spesso, questi “elementi” sono individui il cui vocabolario risulta essere estremamente limitato: gent(aglia)e che, magari, conosce a memoria la formazione del Lecce, ma non ha la minima idea di chi sia stato un Cosimo De Giorgi o un Nicola Bernardini (persone che, probabilmente, avranno contribuito allo sviluppo della città di Lecce più di quanto possa aver fatto un centravanti…). C’è poco da fare: la carenza di cultura continua a generare “mostri”!…  

Giulio Cupiraggi. La violenza verbale esiste, è innegabile, ma penso che il confronto con il passato sia irrealistico, un uomo di 60 anni fa inserito in un contesto moderno sarebbe additato come un reietto. Purtroppo, come ci dice lo stesso Professor Alessandro Barbero, la convinzione di una continua perdita di valori nel passaggio generazionale è una condizione umana, che però trova veramente poco riscontro nei fatti. Sicuramente si può sempre fare di più. Imparare a capire che quanto detto online ha implicazioni offline è fondamentale, ma le nuove generazioni sono attente all’ambiente, lottano contro le disuguaglianze e sperano di costruire un futuro più sostenibile per tutti. Quindi non penso si possa imputare ai tempi moderni la responsabilità di problematiche che oggi emergono solo perché c’è qualcuno disposto a combatterle.

Antonino Guaiana. Sono diventato un avvocato, e dell’uso delle parole ne ho fatto mestiere. “Le parole sono importanti”, per ripetere l’indimenticabile battuta di Nanni Moretti in Palombella Rossa. Direi che oggi vi è penuria di parole. Quelli della mia generazione avevano a disposizione più parole, e meno scappatoie per sostituirle. Oggi foto ed emoticon suppliscono le parole, ma con risultati ambigui e generici. Spero che la comunicazione odierna evolva in qualcosa di più maturo e complesso.
Io personalmente mi tengo le parole. Ho 62 anni, sono un anziano avvocato che pensa, come Flaubert, che “la forma è anche sostanza”.
Auguro ai più giovani di trovare la giusta forma da dare ai loro pensieri, e quindi ai gesti importanti della vita.

Antonio Pistillo. Si è molto più sensibili, anche ad attacchi social, i dialoghi interpersonali si indeboliscono sempre di più.

Alberto Sant’Elia. Le parole molte volte sono maltrattate. Abbreviate, per diventare più rapide. Si usano facilmente come armi che possono far male a chi le legge. E’ facile far circolare le dita sulla tastiera e con un click inviare. Tutto facile! Quindi zero rapporti umani. Da lontano nessun senso di colpa. Ognuno chiuso in casa propria. Le mura del proprio appartamento, come un fortino inespugnabile.  

Pierluigi Rango Sì, è vero che il linguaggio riflette il mondo interiore del parlante. L’uso irresponsabile delle parole può essere agevolato indubbiamente dalla rapidità comunicativa dei social media, ma anche dal limitato dialogo nelle famiglie. D’altronde, questo è un problema storico. Il dialogo nelle famiglie non è mai stato abbastanza.

E’ recentemente accaduto ad una Assessora all’Urbanistica del Comune di Lecce, di essere investita da una valanga di insulti sessisti e, pochi giorni dopo, al suo Sindaco, per il quale, un noto artista locale, ha prospettato di “meritarsi una pallottola”. Sta accadendo qualcosa di più e di diverso rispetto all’approssimarsi di una campagna elettorale ( primavera 2024)? 

Piero Forti. Non credo che l’approssimarsi della campagna elettorale abbia un impatto significativo sulla frequenza di questi eventi. Fortunatamente ci sono delle leggi a tutela dell’Assessora e del Sindaco e non ci si può che augurare che vengano applicate nella maniera più corretta possibile. Purtroppo il dissenso nei confronti degli amministratori assume anche questi caratteri. Trovo che a scanso di futili generalizzazioni e per favorire un discorso proficuo in merito sia importante ragionare sui singoli casi, al fine di determinare se anche gli insulti sessisti siano rivolti alla persona in quanto donna o in quanto assessora.

Gabriele De Blasi.   
A livello istituzionale, anche ai massimi livelli istituzionali, sono stati sdoganati comportamenti che, fino a qualche tempo fa, avremmo ritenuto “inopportuni”, se non, addirittura, al di fuori della legge!… Quale meraviglia, allora, se la violenza diventa argomento “consueto” del dibattito politico?… E’ del tutto evidente che questi comportamenti (che non posso evitare di definire come “fascisti”!) godono, più o meno implicitamente, di “protezione”!… 

Antonino Guaiana. Temo la violenza, ho vissuto gli anni di piombo degli anni settanta. Anni di violenza ideologicamente sorretta da genuine follie e probabili infiltrazioni provenienti da ambienti deviati. Le minacce di oggi – anche quelle sessiste – scontano un disamore per i diversi, per le minoranze, per lo “xenos”. In una società omologata e uniforme, la diversità viene temuta come elemento sovversivo, da combattere ed eliminare. Le campagne elettorali sono vicende tristi, le persone sanno che si tratta di parole vane, promesse non mantenute, con protagonisti spesso mediocri ma spregiudicati.
Confido in un armistizio, in un compromesso storico. Ma ho già visto che i “compromessi storici” purtroppo vanno a finire male.  Ho sofferto quando hanno ucciso Aldo Moro e anche alla morte di Enrico Berlinguer. La Questione Morale è dimenticata, e morali bisogna essere, nella politica, nel privato, nell’amore. Per me la morale è una forma di amore, anche postumo. Ma sempre di amore parliamo.

 Antonio Pistillo. Gli insulti sono un rimedio per poveri di spirito e bisognerebbe irrigidire le leggi penali che non puniscono adeguatamente queste nefandezze

Alberto Sant’Elia.   Ormai sembra diventare qualunque arma quella vincente. E’ necessario vincere, non ci sono sconti da fare. La provocazione, la minaccia, l’offesa, basta ottenere i risultati migliori solo e solamente per il proprio interesse. Colpire le istituzioni è cosa facile. I social sono pieni di accuse e offese nei riguardi di chi ci rappresenta, dimenticando il ruolo istituzionale e la loro importanza, riducendo fatti e personaggi in cosa minima, quasi da calpestare.    Per la donna, il miglior modo di attaccarla è utilizzare insulti sessisti, al di là di ogni idea politica, da parte di quei maschilisti che si sentono “maschi” e in questa occasione, umiliano l’Assessore come donna e rappresentante istituzionale. 

Pierluigi Rango. Dopo questa ennesima storia di violenza e minacce, sono sempre più dell’idea che bisognerebbe promuovere un dibattito civile e rispettoso tra le persone. Che pesantezza l’odio!

L’odio esiste in ogni persona (Vera Gheno, “15 comportamenti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli”), come il sadismo (Paolo Crepet): forse servirebbe insegnare a riconoscerli e a  gestirli?

Piero Forti. Per gestirli è necessario riconoscerli e conoscerli. La tendenza semplicistica a identificare sommariamente tutta una serie di comportamenti come “sbagliati” potrebbe ostacolarne l’approfondimento e la comprensione, rendendo impossibile intervenire. Per poter cambiare, il soggetto di questi atti va messo in condizione di poter ragionare sulle cause, l’attuazione e le conseguenze. Allo stesso modo è probabile che l’oggetto necessiti di un’analisi approfondita rispetto a quanto avvenuto per superare il trauma.

Gabriele De Blasi.    Certamente! Chi, però, dovrebbe farlo? Dobbiamo delegare questa responsabilità a qualcun altro? Dal mio punto di vista, mi definisco molto “calvinista” (nel senso del riformatore di Ginevra), dando sovrana importanza all’individuo, alla sua coscienza, alle sue scelte, alle sue responsabilità… Insomma, se odio qualcuno è perché voglio odiarlo, mi piace odiarlo!… 

 Giulio Cupiraggi. Penso rientri tutto nell’ambito di quell’educazione sentimentale di cui si parlava prima.Imparare a riconoscere quello che sentiamo e capire come gestirlo è fondamentale, anche per riuscire a trovare la giusta valvola di sfogo.

Antonino Guaiana. Esistono gli impulsi, che vanno digeriti, trasformati in parole e poi in gesti concreti. Insegnare a non odiare è cosa importante, ma diventa un gesto neutro ed incolore ove all’odio non si contrapponga una genuina passione per la vita propria e altrui. Assistiamo a guerre che producono molti morti, ma non ne siamo testimoni: solo spettatori dentro ad uno schermo televisivo o di computer. Non sono ottimista, l’odio sta diventando indifferenza, abitudine, visione anestetizzata del mondo. Confido in un evento nuovo ed imprevedibile, ma non riesco oggi ad immaginarlo. Il Covid sembrava un’occasione di umano riscatto e solidarietà, ma così non è stato.
Però, non disperiamo. Non dobbiamo disperare mai.

Antonio Pistillo. L’odio è una conseguenza dovuta alle incomprensioni o equivoci tra gli individui, non solo tra uomini e donne, ma in generale.

 Alberto Sant’Elia.  L’uomo ha bisogno di continuare a imparare per capire meglio la continua evoluzione della vita e quindi del proprio “io”. I veleni della nostra vita che l’uomo assume indisturbato attraverso la rete, senza accorgersene, diventano forze sbagliate nel corpo e nella mente.  Narcisismo, invidia, noia, impulsività, un elenco che Vera Gheno fa continuare e che rappresentano i veleni della rete e che devono far riflettere sull’essere uomo oggi, che spesso vede smarrito il proprio equilibrio psico-fisico. 

Pierluigi Rango. Indubbiamente, è proprio questo il punto cruciale della questione. “L’uomo in rivolta” di Albert Camus ha segnato una certa generazione del secondo dopoguerra, un invito a una ribellione che partisse da sè, dalla propria interiorità.

Non sarà che, forse, è mancato qualcosa negli anni delle riforme e delle conquiste civili, quando si è dato per scontato che fosse sufficiente intervenire sulla regolazione dei rapporti sociali senza dover, contemporaneamente, educare ad un modo più consapevole e maturo di concepire i rapporti uomo-donna?

Piero Forti, Per un discorso anagrafico sono un po’ in difficoltà rispetto a questa domanda. Quello che mi sento di dire è che le riforme e le conquiste civili hanno concretizzato degli ideali, rendendone la manifestazione parte della prassi comune. Il problema è che col passare del tempo certe convenzioni vengono date per scontate e con esse i principi che ci sono dietro.
Prendiamo ad esempio il suffragio universale. Posto che quasi nessuno voglia metterlo seriamente in discussione, forse a qualcuno sfugge quali siano i valori che ne costituiscono la base. Trascurandone il principio dietro, ci si potrebbe lasciare andare in analisi molto pragmatiche che attribuiscono ad esso in quanto status quo tutta una serie di problematiche attuali. Ne potrebbe conseguire l’illusione forse che, in mancanze di un’idea per progredire, fare un passo indietro potrebbe risolverle. 

Gabriele De Blasi. Mi rifaccio alla risposta precedente: al centro è la persona, l’individuo, con la sua volontà e le sue scelte. Io posso scegliere da che parte stare, tra le tante opzioni che mi offre la realtà: starà alla mia coscienza individuare quella giusta, che, probabilmente, non sarà la più comoda o conveniente! 

Giulio Cupiraggi. Onestamente penso che i presupposti alla base di questa domanda siano errati, da come posta sembra quasi che si voglia far notare come solo dopo i cambiamenti sociali siano emersi questi fenomeni di disuguaglianza e violenza di genere, ma dubito fortemente che le cose stiano così. Anzi sono certo che il passare del tempo e l’impegno sociale verso queste cause abbia ridotto di moltissimo un fenomeno che esiste da sempre, ma che semplicemente prima non era degno di nota perché considerato normale.

Antonino Guaiana. Il mio libro da tavolino (quello da portare eventualmente nella famosa isola, io sono di Pantelleria) è Lo Straniero di Albert Camus. Di lui amo anche La Peste. Ho studiato molto Marx, e gli autori che fondano le relazioni umane su rapporti di forza di natura prevalentemente economica. Personalmente, non ne sono completamente convinto.
Uomini e donne condividono uno splendore primigenio, intravisto nei momenti di gioia dei loro rapporti. Rimango convinto fautore di un umanesimo prossimo venturo, e non ho rimpianti. La tecnologia non sostituirà la magia dell’amore e la sua imprevedibile creatività. Possono proibire forme di amore con il ricatto dell’egemonia economica, ma sotto le lenzuola del grande cielo del mondo, nessuno potrà impedire a uomini e donne di amarsi, come e quanto gli piace. Adamo ed Eva abitano ancora qui, da qualche parte e in cerca di un meraviglioso e rinnovato peccato. 

 Antonio Pistillo. Penso che non sia cambiato assolutamente nulla. Tutto dovrebbe essere regolato dal buon senso, oltre che dal senso del rispetto per l’altro.

  Alberto Sant Elia. La domanda mi spinge a continuare, anche con questa risposta, nel parlare di equilibrio, che l’uomo deve, anche se con fatica, trovare.  Nel tempo, la ricerca e le riforme hanno perso qualcosa rispetto a dei punti di riferimento a cui si rivolgevano. Parliamo della società civile, della cultura, della famiglia, della scuola.  Probabilmente, a causa dei tempi frenetici che ci detta la vita di oggi, ognuno si definisce, con assoluta leggerezza, stressato, imputando allo stress la responsabilità  di tutto, e racchiudendo nella propria individualità tutto un mondo lontano da quello sociale.  Voglio chiudere questa risposta con una similitudine, forse azzardata, ma concedetemelo.  Una danzatrice cerca il suo equilibrio sulle punte, una scarpetta di raso dalla punta di gesso che deve reggere un corpo leggero, per poter piroettare, saltare, danzare. Un equilibrio che costa fatica, rigore e probabilmente, nella ricerca del suo equilibrio, l’uomo si arresta. 

Il ruolo dei Consultori familiari: chi di voi è mai entrato in uno di questi servizi?

Piero Forti.Non sono mai entrato in un consultorio ma questo non significa che non sia consapevole della loro importanza. Detto questo, mi sembra evidente che ci sia un tendenza a considerare come opzionali tutta una tipologia di prestazioni da cui il servizio pubblico non può esimersi. Immagino che gli inevitabili disagi che conseguiranno da certe politiche avranno come conseguenza almeno una parziale inversione in questo senso.

Gabriele De Blasi.  Spero funzionino meglio di quanto facessero ai tempi della mia gioventù (quando mi capitò di frequentarli)…  

Antonino Guaiana. Ho accompagnato la mia prima ragazza in un Consultorio dell’UDI (Unione Donne Italiane) per la somministrazione della pillola. Ero emozionato e un po’ imbarazzato. Ma è un ricordo tenero, e serio al tempo stesso. Volevamo io e lei stare insieme, in sicurezza. Ho un ricordo bello dei Consultori, ci hanno responsabilizzato passando per il piacere dei nostri giovanili sogni. Non c’era il sesso pornografico, ma quello gentile dei giovani che intraprendono un cammino d’amore. Anni belli, e non solo perché ero giovane.

Antonio Pistillo. Sono servizi approssimativi. Funzionano se chi ci lavora ha amor proprio mettendo a disposizione professionalità e formazione ricevuta.

Alberto Sant’Elia. Credo che i Consultori familiari abbiano una funzione importante, almeno in teoria, sulla funzionalità pratica non saprei dire, perché non ho mai avuto occasione di conoscerli all’interno del loro operato.  

Pierluigi Rango. Se chi offre il proprio servizio è competente e desidera contribuire nel suo ambito a rendere il mondo un posto migliore, ben vengano i Consultori.

Una maggiore responsabilità del sistema mediatico, forse troppo interessato ad assecondare e a conquista facili like? 

Piero Forti. E’ un discorso infondato. Per quanto mi riguarda non ci si può aspettare che ad educare sia chi fa intrattenimento o chi fa giornalismo. Bisogna identificare quali entità possano essere investite del compito e concentrarsi su di esse. Attribuire la responsabilità a tutti è come attribuirla a nessuno, in quanto solleva chi ha o dovrebbe avere a disposizione gli strumenti, le competenze, i tempi e gli spazi più opportuni. Quando si cita il sistema mediatico, si tende nobilitarne i prodotti attribuendo automaticamente loro uno spessore intellettuale che non per forza devono avere. I media sono perlopiù costituiti da aziende e in quanto tali sono soggette a logiche di profitto che ne garantiscano la sopravvivenza sul mercato.

Gabriele De Blasi.  Non ci conterei: il sistema mediatico italiano tradisce fin troppo facilmente (fatte salve poche, lodevoli ed eroiche eccezioni) la sua approssimatività, nonché l’incapacità di rendersi libero e indipendente da qualsivolglia condizionamento.

Giulio Cupiraggi Il sistema mediatico ha sicuramente subito un impoverimento di quelle che dovrebbero essere la sua funzione informativa ed educativa. 

La necessità di inseguire un elevato numero di visualizzazioni per rimanere a galla, ha reso il sistema schiavo dei trend del momento, spostando l’attenzione mediatica verso ciò che fa notizia, portando così anche a una visione distorta della realtà, che viene percepita per come descritta dai media. Probabilmente se chiedessimo oggi a un cittadino italiano quanto si sente al sicuro oggi rispetto al passato o quanto la condizione della donna sia migliorata ai giorni nostri, molti affermerebbero di sentirsi meno al sicuro e ancor di più parlerebbero di quanto sia cresciuta la violenza nei confronti delle donne. Eppure, i dati ci dicono che gli omicidi dagli anni 90 ad ora sono diminuiti di 5 volte con un tasso pari allo 0,6%, rispetto alla popolazione totale, secondo in Europa solo a Norvegia e Svizzera. 

Antonino Guaiana. Il sistema mediatico ha grandi responsabilità, e i giornali sono purtroppo molto omologati e obbedienti alle regole del mercato. Ma io penso che i nostri profili “social” possano nascondere un qualche granello di sabbia capace di inceppare questo grande sistema mediatico. Qualcuno sarà capace di ingannare l’algoritmo. E uomo o donna che sia, io ne sarò molto felice. In fondo si vive di felici disobbedienze, alla fine. Parola di avvocato.

Alberto Sant’ Elia. Una maggiore responsabilità dell’uomo e quindi del mezzo tecnico. Senza confondere la Democrazia con la falsa democrazia! 

Pierluigi Rango Sì, c’è un uso smoderato del “clickbait”. D’altronde anche un click genera profitti e le aziende giornalistiche tentano di generare traffico sui loro blog o siti Web, spesso abusando di titoli sensazionalistici per attirare l’attenzione. 

Conclusioni

Mettere intorno ad un tavolo per riflettere su questi argomenti un gruppo di uomini di età diverse non è stato facile. Punti di vista diversi, sinceri e profondi, e questa è già una cosa importante.

Quello che è emerso è come fosse l’esito di un fascio di luce gettato su di un intreccio di ragioni che, più che spiegare un fenomeno,  lo registrano come un qualcosa che si può provare a capire solo servendosi di molteplici chiavi di lettura, una serie di comportamenti da analizzare, quindi, anche sotto il profilo  antropologico.

Massimo Recalcati, da ultimo, richiamando Lacan e il suo concetto di “evaporazione del padre”, ha sviluppato un ragionamento intorno alla neo fragilità e allo smarrimento del maschio, che sembra convivere con la persistenza di residui di patriarcato che producono maschilismo, in una società che, dal ’68, ha messo in discussione la figura simbolica del padre, il suo vertice gerarchico.

Con le prime settimane del 2024 è uscita una sentenza della Corte Costituzionale che ha declinato al femminile le qualifiche dei suoi giudici e  quindi, la “relatrice” o la “redattrice”, se si tratta di donne. E’ un cambiamento nell’uso delle parole, ma i “segni dei cambiamenti collettivi non sono percepibili nella particolarità delle vite individuali, a parte lo scoramento e nella fatica che fanno pensare segretamente a migliaia di individui nello stesso tempo… ”non cambierà mai nulla”( Annie  Ernaux).

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