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Le giornaliste del Mediterraneo e l’informazione nello scenario di guerra

ottavo forum of mediterranean women journalists
Maria Silvia Quaranta

di Maria Silvia Quaranta

A chiusura dell’8° “Forum of Mediterranean women journalists”, l’ultimo panel si è focalizzato su “Mediterraneo: No More Nakba/Shoah/”. Le notizie sulle guerre devono ancora di più rispondere ai criteri di verità e pertinenza, evitando manipolazioni e faziosità. Occorre un maggiore rispetto del codice deontologico, tutelando soprattutto le minoranze e gli oppressi.

Ottavo panel del VIII Forum of Mediterranean Women Journalists
Ottavo panel del VIII Forum of Mediterranean Women Journalists

Il tavolo è stato moderato dal prof. Luigi Cazzato (Uniba), il quale ha ricordato il Mediterraneo come un mare che oscilla tra l’emporio (il commercio) e l’imperium (il mondo delle guerre). In questo momento l’ago punta verso il mondo dei conflitti. Ma cosa significano Nakba e Shoah? Hanno lo stesso valore di “catastrofe” nella lingua araba ed ebraica, etnie che cinque secoli fa erano accomunate quando i re cattolici Isabella e Ferdinando decisero di cacciarli dalla Spagna, andando alla ricerca del sangue puro. Entrambi questi popoli avevano un destino e una lingua comune, quella semita. Nel corso del ‘900 questo fato si biforca, diventando Shoah per gli ebrei con il nazismo nel ‘39 e Nakba nel 1948 con la nascita dello stato d’Israele a discapito della cacciata di 750mila palestinesi.

Se la Shoah è un genocidio a causa del razzismo europeo, la seconda è una catastrofe prodotta dall’ultimo regime coloniale di stampo ancora una volta europeo. L’Europa ha insegnato agli ebrei come diventare colonizzatori, portando Edward Said a scrivere “La questione palestinese. La tragedia di essere vittime delle vittime”. In scenari di guerra occorre riconoscere il dolore dell’altro, ma anche affermare la realtà perché se essa non viene rappresentata non esiste. Alba Nabulsi (giornalista New Arab) ha infatti ricordato come il giornalista debba rispettare la dimensione etica e quella della memoria, attraverso il racconto preciso di quello che si vede e si sente. Oggi a Gaza e nel territorio palestinese non ci sono giornalisti internazionali e da fuori c’è una palese propaganda che è attivata senza possibilità di contrapposizioni. Finora sono 63 i giornalisti palestinesi morti e altrettanti sono stati arrestati. Dal 7 ottobre 2023 non si è letto quello che realmente stava accadendo alla popolazione civile; ma nuovi influencer si stanno affermando nel mondo palestinese, voci forti capaci di documentare quello che si compie davanti ai loro occhi con onestà e lucidità.

Nabil Salameh (leader dei Radiodervish, giornalista), ha rievocato come dagli inizi di ottobre seguendo in contemporanea le trasmissioni di Al Jazeera e dei mezzi occidentali, “la differenza era sconvolgente, passando dal mondo convenzionale ad uno capovolto. Quello che trasmetteva Al Jazeera era frutto di una testimonianza diretta, senza filtri, fatta da giornalisti del luogo e citizen journalist”. Questo nuovo tipo di giornalismo, fatto da cittadini, ha rivoluzionato la coscienza e l’approccio al mondo; questi ragazzi/ragazze hanno destato l’attenzione da un’altra prospettiva avendo milioni di follower. Il The Jerusalem Post in un lungo articolo ha accusato questi ragazzi di essere pagati da Hamas, ma in realtà essi avevano iniziato molto prima della guerra a trasmettere cronache di vita e di cultura a Gaza. È facile seguire la scia della propaganda (senza prove evidenti dei fatti), allontanandosi dall’etica professionale e dall’approccio civico-umanitario. Salameh, il quale ha perso nel conflitto parenti e amici, si è soffermato “sul colonialismo, la cui rappresentazione dispone di mezzi potenti come la televisione e il cinema, designando e degradando la controparte ad essere inumano”.

Alcuni dei relatori, in ordine da destra, Alba Nabulsi, Nabil Salameh, Maya Issa e Francesca Albanese
Alcuni dei relatori, in ordine da destra, Alba Nabulsi, Nabil Salameh, Maya Issa e Francesca Albanese

Anche Maya Issa (Presidente movimento studenti palestinesi in Italia; attivista della diaspora), con la sua esperienza di palestinese profuga del Libano, ma anche come quelli della Giordania e della Siria (più di nove milioni), che nel 1948 scacciati dovettero cercare rifugio nei paesi confinanti, ha ricordato come Israele rappresenti uno stato democratico con diritti garantiti da una legge del 2018 solo per gli ebrei, e i palestinesi che qui vivono, chiamati arabi del ‘48, non godono gli stessi diritti, generando una differenza in base all’etnia/alla razza/alla religione. La questione palestinese non inizia il 7 ottobre, ma 75 anni fa; l’ultima escalation è stata prodotta da vari motivi come l’embargo militare su Gaza che ha prodotto il blocco generale, il taglio di luce/acqua, il divieto di cure per i più piccoli, con la negazione dei diritti basilari. Maya Issa si pone la domanda “perché la Comunità Internazionale non ha fatto nulla per impedire di arrivare al 7 ottobre? Gaza sotto pressione poteva esplodere in qualsiasi momento”. I palestinesi hanno sempre creduto in un processo di pace, hanno riconosciuto lo stato di Israele, ma ancora si continua a parlare di due stati/ due popoli, quando questo non si è mai realizzato (mai riconosciuto lo stato palestinese che non ha un’integrità territoriale). È indispensabile giungere alla fine dell’occupazione e all’autodeterminazione, accompagnata dal cessate il fuoco” ha concluso la Issa, non giustificando il 7 ottobre, ma da palestinese comprendendolo.

Nel suo intervento Francesca Albanese (relatrice ONU sui diritti dei palestinesi in Palestina) ha ribadito che “un crimine è un crimine e la resistenza del popolo palestinese alla repressione, all’occupazione illegale, alla colonizzazione, deve essere riconosciuta nei limiti dei mezzi previsti dal diritto internazionale. Uccidere civili o prenderli prigionieri è un crimine sia che lo faccia la Palestina che Israele; se viene meno il riconoscimento della universalità di queste norme si ha meno forza poi nell’applicazione del diritto internazionale contro i crimini perpetrati”. Dal 1967 a oggi il territorio che dovrebbe essere lo stato indipendente di Palestina è tenuto sotto occupazione militare; la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est sono occupati ai sensi del diritto internazionale, il quale sancisce obblighi giuridici di Israele nei confronti della popolazione palestinese, che invece viene considerata come entità ostile imponendo una narrazione controversa.” Trent’anni fa si parlava di Palestina, anche in Italia, con cognizione di causa; oggi parlando di questi temi si viene accusati di antisemitismo. “La stampa passa una narrazione unidirezionale che confonde il pubblico, il quale non capisce realmente quello che sta accadendo, ma vede due popoli che non riescono a fare la pace” ha detto la Albanese. Per la relatrice ONU non si dovrebbe parlare di conflitto, ma di un colonialismo d’insediamento che si è rafforzato con l’occupazione militare diventando un regime di apartheid e di default, perché i palestinesi sotto occupazione stanno sotto la legge militare e visti come coloni. C’è uno scontro tra chi è più indigeno dell’altro: il fatto di avere un legame religioso è una condizione sufficiente per essere indigeni, e ciò può determinare il diritto di sfollare, depredare e uccidere l’altro popolo indigeno? La storia bisogna leggerla, ma oggi è totalmente appiattita, Per il mondo la tragedia inizia il 7 ottobre e non c’è nulla prima, con indubbie responsabilità oggettive da parte di Hamas e di Israele. Bisogna riscoprire il concetto di solidarietà nel suo senso intimo di concretezza, perché quello che sta succedendo in Palestina è la metafora di quello che continua a succedere ai popoli del mondo. È indispensabile usare un linguaggio inclusivo, rivalutando il pensiero di Edward Said, a vent’anni dalla morte, che ciò che vale per i palestinesi vale per gli israeliani, resistendo alla disinformazione e interrogandosi in modo obiettivo e trasparente.

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