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Un Vescovo con il grembiule sul sagrato del cuore dei puri.

A trent’anni dalla transizione di Don Tonino Bello avvenuta il 30 aprile1993 a Molfetta tante iniziative

di Piero Fabris

Mi dissero di stare attento e di correre ad avvisare quando il vescovo di Molfetta sarebbe apparso. Mi aspettavo di trovarmi davanti un prelato con la tipica papalina rossa, l’incedere fiero e con l’anello al dito pronto a tendere la mano ai fedeli perché la baciassero inchinandosi. Nel vicolo si infilò un’utilitaria dalla quale spuntò un prete affabile e sorridente. Pensai: “Sarà un curato di campagna!”

E invece era Don Tonino, invitato dai giovani dell’Azione Cattolica a tenere una conferenza. Parlò delle tentazioni del potere, della fame che può renderci fragili e ingordi, specie dopo i quaranta giorni nel deserto e, perché no, il deserto umano, quello che ci rende facilmente vulnerabili, regno dei miraggi e del sottile sibilo del serpente dove la tentazione del dominio sugli altri è facile via d’inganni; luogo dove sottomettere l’altro con la forza fisica e l’astuzia manipolatrice finisce con l’intrappolarci nel labirinto della vanità che trasforma i nostri percorsi in visioni di giustizia distorta nella quale l’ebrezza di superiorità ha ragione sull’onestà di accettare i propri limiti,  vittime incoscienti di cammini dalla patina luminosa, grazie alla quale si finisce col mentire a se stessi mimetizzando la piccolezza infinita che ci fa sentire elevati. A tutto questo straripare egoistico e di ipocrisia, Don Tonino contrapponeva il Servizio. Si rimane colpiti ripensando a lui, come a un uomo semplice che sapeva essere accanto, pronto ad aprire la propria porta e condividere la tavola. Numerose sono le testimonianze di chi ricevette un passaggio da lui. Il vescovo di Molfetta non lasciava indietro nessuno. Si fermava, Ascoltava. Il primo dovere, avrebbe ricordato Dietrich Bonhoeffer, è l’Ascolto dell’altro! E mentre ripenso a don Tonino, mi tornano in mente alcuni degli scritti di Vittorio Bachelet dal titolo: SERVIRE, un termine vigoroso che ci rende protagonisti della nostra vita e non schiavi dell’apparire, dell’essere sul pulpito per portare a noi stessi piuttosto che volgerci come girasoli verso la luce. Un vescovo proprio come un pastore, attento al gregge a lui affidato, un uomo pieno di zelo per il Dio degli eserciti. Per tutti era semplicemente Don Tonino, un uomo che non ostentava il proprio sapere, ma faceva della cultura uno strumento di conoscenza, uno strumento d’amore, eppur, quel giorno, quando prese a parlare, senza fogli con fermezza raccolse tutti in un silenzio che è Ascolto. Mi dissi: “Quest’uomo parla col cuore. Conosce l’arte di parlare di cose profonde con chiarezza!” In tanti mi raccontarono di averlo visto per i vicoli di Molfetta tra i barboni e quasi scandalizzati speravano in un vescovo meno imbarazzante, più da salotto che da strada. Gli stessi oggi mi dicono di avere sul comodino le sue lettere alla comunità, ordinate in un testo che è come essere “Alla finestra della Speranza”. La tentazione è sempre in agguato, fare dei suoi scritti/slogan, citazioni dotte. E invece da Don Tonino si impara a essere uomini di pace, quella pace che è azione, ovvero fermezza e passione per la giustizia, del bene comune così diverso dagli interessi di alcuni. La pace è il lievito della verità che giunge fino agli angoli più lontani del nostro essere restituendo a tutti la dignità d’essere fratelli, di riconoscere nell’altro la sacralità, l’unicità che rende tutti parte del giardino di profumi, dove fiori diversi sono sentieri di ricchezza, “rispetto per la vita” (Albert Schweitzer) che ci schiude e abbraccia nella meraviglia della convivenza delle differenze. Martin Luther King si chiedeva il perché no di un Sogno e il Mahatma Gandhi ha mostrato la forza della “Non violenza” come arma di pace, mentre soffermandomi su Aldo Calepini penso alla lucidità del suo pensiero che ci vuole uomini, lucidi testimoni del nostro tempo e non miseri esibizionisti felici dei riconoscimenti. Abbiamo bisogno di riconoscerci parte di un popolo sulla via di Damasco, di gente che alla sera si riconosce alla mensa del dialogo, non della competizione sterile.

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