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Detenuto per 27 anni Lovaglio si può raccontare dopo una vita travagliata

di Cinzia Santoro

Nicola Lovaglio, bimbo dall’infanzia negata, adolescente violento e abbandonato, detenuto per 27 anni 11 mesi e 28 giorni nelle carceri italiane. Nicola Lovaglio ha scontato la sua pena e oggi vive da uomo libero. Nicola Lovaglio disabile nel corpo e nella mente, eredità degli anni di violenze dentro e fuori dal carcere. Nicola Lovaglio vuole aprirsi al mondo e raccontare la sua vita. Nicola Lovaglio chiedeva di essere ascoltato e compreso dagli assistenti sociali, dagli psichiatri, dagli agenti penitenziari. Nicola Lovaglio voleva essere amato da chi lo aveva messo al mondo.
Nicola Lovaglio, simbolo del fallimento delle politiche di sostegno ai minori che hanno la sfortuna di nascere nelle famiglie problematiche. Nicola Lovaglio, la cui storia viene raccontata con sensibilità da Domenico Iannacone e accolta dal pubblico attento e commosso di “Che ci faccio qui”, docu-reality in cinque puntate andate in onda su RAI 3 il sabato in prima serata.

NICOLA LOVAGLIO

L’intervista

Nicola cosa ti è accaduto durante gli anni della incarcerzione?

Ho trascorso 27 anni 11 mesi e 28 giorni della mia esistenza  tra riformatorio, carcere minorile, carcere e ospedale psichiatrico giudiziario. Ancora oggi frequento il centro d’igiene mentale e il sert, pur essendo una persona libera che ha scontato la sua pena. Ma la libertà cos’è? Io sono libero per la legge ma in realtà oggi io sto scontando una pena infinita, perché devo assumere ogni giorno farmaci che mi consentono di vivere e sopravvivere agli orrori vissuti negli anni trascorsi in carcere. Periodicamente mi consegnano le dosi dei farmaci da assumere e faccio i colloqui con lo psichiatra del centro di igiene mentale. Al Sert invece controllano il livello di morfina nelle mie urine, morfina che sono costretto ad assumere per i dolori cronici che affliggono il mio corpo. Ho ernie cervicali, esiti di fratture, lesioni al timpano e tant’altro, ricordo delle violenze che ho subito fin dalla tenera età. Mio zio Maurizio mi picchiava sempre, bastava un mio rifiuto a consegnargli delle sigarette che partivano calci e pugni. Ma anche in carcere le ho prese dai secondini,  dagli altri detenuti nelle risse e dai degenti degli ospedali psichiatrici dove sono stato ricoverato. A dire il vero io non mi nascondevo e picchiavo duro. Il linguaggio della violenza era il mio pane quotidiano.

La tua famiglia era affiliata alla sacra corona unita.  Quali conseguenze ha avuto sulla tua vita la scelta dei tuoi familiari?

Vengo da una famiglia foggiana. Mio nonno e i suoi undici frateqlli erano conosciuti come i “scavuzichiu’u'” ossia quelli che camminavano scalzi tanto erano poveri. La malavita era già presente nella nostra famiglia negli anni della guerra.
Io ho vissuto la mia infanzia negli anni 80 e in quel periodo a Foggia era pericolossimo viverci. A nove anni la mia scuola era quella della malavita, ho imparato a riconoscere tutte le armi in commercio e il mio compito consisteva nel consegnarle ai sorvegliati speciali. Vivevo con la nonna, che era una bravissima donna e che faceva le pulizie per poter mantenere la famiglia. Io l’accompagnavo sempre, anche quando si alzava alle due di notte per andare a pulire i condomini. Nonna non sapeva di questo traffico e per me era un gioco. Ero orgoglioso quando portavo a casa le 10 mila lire ma dovevo mentire sulla provenienza. La nonna mi voleva bene ma come tante mamme del sud quando sbagliavo prendeva “la cucchiarella” quindi non potevo confidarmi con lei.  Come puoi immaginare la mia vita è stata molto dura e ho scelto l’unico modo che conoscevo per sopravvivere, la violenza.

Che ricordi hai della tua infanzia?

Mio nonno era un vecchio “capo bastone” della sacra corona unita, e il suo cognome era Luciano. Mia nonna era sposata con un certo Lovaglio, un un uomo benestante che abbandonò per scappare con mio nonno e i suoi undici fratelli pugili. Portiamo il cognome del marito di mia nonna a causa di una lunga storia burocratica!
Quando la nonna muore mio “fratello” esce dalla prigione e mi racconta un’ amara verità: io ero suo figlio. Stordito non sapevo cosa dire e nessuno mai mi ha aiutato a comprendere. I nonni che reputavo i miei genitori non lo erano e mio fratello era mio padre!  I nonni mi amavano ma la violenza era il filo conduttore delle nostre vite. Ricordo che il nonno tornava spesso ubriaco e picchiava la nonna, io la difendevo e andavo a dormire con lei per proteggerla.
Mio zio era un ragazzo violento e si drogava. Ha smesso di picchiarmi solo quando mio padre è tornato a casa dal carcere. Questa era la mia famiglia.

Che rapporto avevi con la tua mamma?

Della mamma, quella che mi ha messo al mondo, sentivo parlare solo negativamente e apostrofata di ogni nefandezza. Sono stato in orfanotrofio per sei anni, lo stesso che aveva ospitato mia madre. Lei mi ci aveva portato perché non mi poteva crescere e aveva lasciato mia sorella che era nata con gravi handicap dai suoi famigliari. Nell’adolescenza per salvare mio padre e l’onore della mia famiglia ho dovuto spararle ma non l’ho uccisa. A undici anni mi è stato chiesto di fare questa azione terribile. Dovevo scegliere tra mio padre e mia madre! Ho sofferto tanto, non si può descrivere il dolore che si prova quando vivi certe situazioni. Con mamma mi sono sentito invisibile, volevo la sua attenzione, il suo amore, invece lei non mi vedeva. Io non esistevo, qualche volta nell’ adolescenza ho vissuto con lei a Roma, si prostituiva e mi dava del denaro ma io desideravo solo il suo amore. Invece con i suoi modi sterili e con le parole cattive mi ha procurato altri gravi traumi che mi hanno segnato.

Hai un ricordo felice della tua infanzia?

Si, la nonna che mi ha fatto frequentare una palestra di pugilato per due anni dove ho imparato le regole della boxe. Andando in palestra socializzavo con gli altri ragazzi e il tempo trascorreva veloce. Ero una promessa della boxe ma con la morte della nonna non ho più frequentato. Lei desiderava un futuro migliore per me, non accettava la vita che conduceva mio padre e voleva tirarmi fuori dal giro.

Dall’infanzia al riformatorio al carcere, il passo è breve. Cosa ti accade?

Ero giovanissimo e a Foggia non potevo tornare perché imperversava la guerra fra clan e mia madre era sparita da Roma. Io dormivo nelle macchine che scassinavo. Organizzavo rapine per mangiare ed ero solo, disperatamente solo! Ho vissuto in riformatorio tanto tempo, entravo e uscivo di continuo da quel luogo che mi dava almeno da dormire e da mangiare. Poi passai al carcere minorile, ero un ragazzo furibondo, aggressivo non conoscevo altro che la violenza. Dovevo difendermi dalle gang che esistono in ogni carcere e solo con le mani potevo farlo. Io avevo la cultura della malavita e tanta rabbia. Ero disperato tanto da bruciare le celle per farmi ascoltare, volevo attirare l’attenzione perché mi sentivo invisibile. Volevo essere amato, riconosciuto e se si può dire “coccolato”.  Soffrivo perché gli altri detenuti facevano i colloqui con i parenti mentre per me non c’era mai nessuno. Ero furioso e dinnanzi ad atti ingiusti verso altri detenuti io mi arrabbiavo e cercavo di difenderli utilizzando le mani. Le guardie carcerarie mi punivano con l’ isolamento e io mi ribellavo perché trovavo ingiusto essere punito da solo e quando chiedevo loro spiegazioni mi rispondevano che ero uno stupido a fare certe cose e che forse potevo farle meglio! Ero vulnerabile e speravo sempre nell’intervento degli educatori e degli assistenti sociali. Con l’ingresso in psichiatria ho iniziato a prendere gli psicofarmaci, gocce e ancora gocce per tranquillizzarmi che mi spegnevano il cervello. La depressione è stato il passo  successivo e ho tentato il suicidio. Ero ricoverato nel reparto agitati dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. In quel luogo regnava la prepotenza e io non la potevo accettare. Dopo, da maggiorenne si aprirono le porte del carcere e io mi affiancai ai detenuti più anziani perché molti li avevo conosciuti da piccolo con mio padre.  Loro mi davano consigli per sopravvivere in carcere e conoscevano purtroppo mia madre, in quanto le mogli in passato avevano lavorato con lei nel giro della prostituzione. Il pensiero che gli altri sapessero di mia madre mi faceva male. Ero distrutto, nei miei 18 anni di vita avevo conosciuto dolore e violenza, abbandono e deriva morale. La solitudine era la mia amica fedele e la paranoia prese il sopravvento. Un giorno anche una guardia carceraria mi derise a causa del “mestiere” di mamma e io gli ho sferrai un pugno. Da quel momento la mia vita in carcere divenne l’inferno sulla terra e il mio nome è rimasto indissolubilmente legato al “foggiano” che picchiava le guardie. Io non volevo essere associato al nome di quella donna, preferivo essere riconosciuto come il figlio di Lovaglio. Per dirla brevemente fui portato in isolamento e picchiato ferocemente dalle guardie. Ancora oggi mi chiedo perché l’uso della violenza sui detenuti da parte delle stesse guardie, che invece avrebbero dovuto aiutarmi nella riabilitazione. Avrebbero dovuto darmi l’esempio e non utilizzare la violenza che era l’unica voce che io conoscevo.

Il carcere e l’ospedale psichiatrico giudiziario, gli anni dei Tso e dei tentativi di suicidio. Cosa ricordi?

Ero segnato a vita. In ogni carcere arrivava la mia fama prima di me. Ero il “foggiano” ma nessuno vedeva Nicola, un giovane vulnerabile, arrabbiato e confuso. Quando giungevo in carcere le guardie erano perennemente minacciose con i modi e nel tono. Io non riuscivo ad accettarlo perché non mi sentivo di aver sbagliato. Ero stato offeso e avevo reagito ma non mi volevano credere. In carcere le guardie sono conviventi tra loro e anche se conoscevano la verità nessuno mi ha difeso. In carcere ho tentato più volte il suicidio e ho trascorso circa 13 anni nei reparti psichiatrici giudiziari. Ancora oggi faccio fatica a raccontare quei momenti durissimi della mia vita. Ho subito 42 Tso e mi hanno sottoposto all’elettroschok. Dicono che sia una pratica che non venga più utilizzata, non è vero!  Ricordo i poliziotti che indossavano i camici bianchi e utilizzavano il gas dell’estintore nella cella per farmi uscire e massacrare di botte. Dopo mi portavano sotto la doccia e con l’idrante mi “lavavano”. Venivo  rinchiuso in una cella ” liscia” tutta bianca, sprovvista di ogni suppellettile. Allora io chiedevo loro di portarmi il necessario ma venivo ignorato tanto da farmi perdere il controllo. Allora le guardie mi contenevano legandomi al letto e mi stordivano  con un’ iniezione di psicofarmaci chiamata “tripletta”. Dopo qualche secondo ero annientato e partiva il Tso. Nei giorni successivi venivo slegato molto lentamente, prima un piede, dopo la mano e così passavano i giorni. Se invece ero agitato continuava la contenzione… puoi immaginare cosa accade a un uomo legato al letto per giorni? Immagina una branda di ferro con un foro centrale per i bisogni… sei nudo… e ti portano da mangiare! Ti imboccano o almeno cercano di farlo. Non erano i secondini però che mi aiutavano ma gli altri pazienti psichiatrici.  Pensa mi è capitato di essere imboccato da uno dei componenti delle “bestie di satana”…
Immagina cosa provassi in quei momenti, la minestra bollente sul viso e lo sguardo di chi mi stava difronte.
In quegli anni ho visto il male e la bruttura umana, nell’ opg spesso le guardie per divertirsi davano ai malati un caffè  annacquato e una sigaretta e… non voglio dirvi cosa facevano in cambio…dico che alle guardie piaceva guardare. Potrei raccontare mille episodi, tutti gravi e disumani, episodi che mi hanno devastato il corpo e l’anima. Gridavo il mio dolore ma non c’era nessuno pronto ad accogliere Niko, il ragazzo violento che chiedeva amore. In fine ho dovuto compiere un atto di autolesionismo gravissimo. Solo in quel momento, dopo 13 anni qualcosa si è mosso e ho incontrato il Dottor Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti che mi ha aiutato concretamente con la sua grande umanità.

Cosa accade quando incontri il Dottor. Stefano Anastasia?

Il Dottor Anastasia mi tira fuori dall’ opg e mi fa trasferire al carcere di Massa Carrara dove sono stato trattato con rispetto e umanità dal direttore e dalla polizia penitenziaria. Ho iniziato un percorso con una psichiatra competente che con un lavoro professionale e umano mi ha aiutato a cambiare. Io non parlavo, usavo solo la violenza, con lei ho potuto ripercorrere la mia esistenza e accettarla nel cambiamento. Ho parlato della mia esperienza terribile e sono stato creduto. Ho imparato a vivere e oggi con il mio amministratore di sostegno, l’avvocata Silvia Pizzi, che ha creduto in me e nel mio percorso di riabilitazione, vivo in Toscana da uomo libero.    
Sono molto solo, anche se a Roma vive mio figlio con la sua famiglia. Sono diventato padre giovane e ho amato mio figlio, non ho potuto essere presente nella sua vita perché ho trascorso gli anni  tra il carcere e gli ospedali psichiatrici giudiziari. Oggi cerco di stargli vicino con il mio amore di padre. Sono sempre disponibile ad ascoltarlo e lo aiuto nelle piccole necessità quotidiane. Non voglio pesare nella sua quotidianità, ho troppi problemi di salute e soffro di gravi disturbi psicologici, ho la fobia dei treni, del traffico, del caos e tanto altro. 
Con la mia pensione riesco a vivere dignitosamente e vivo per far conoscere la mia tragica storia e le condizioni pessime in cui versano i detenuti nelle celle del nostro paese.
Sono tornato ad allenarmi e in palestra aiuto i ragazzi più sfortunati, quelli come me, che la vita lascia soli nel momento più delicato, l’adolescenza. Li alleno e parlo con loro, li ascolto con attenzione, la stessa che io desideravo alla loro età e che mi è stata negata. Spesso chiedo all’avvocata di passare in pasticceria per acquistare i cornetti caldi per i miei ragazzi, come piaceva a me quando ero ragazzino.
Io sono questo, sono Nicola Lovaglio, un uomo.

2 giugno 2022


L’infanzia negata di Nicola il foggiano. Storia di abbandono e di degrado

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