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Ciao Giuliano Montaldo voce degli eroi sommersi e del rispetto della realtà meravigliose della gente silente

Giuliano Montaldo e Piero Fabris (foto di Roberto Cucciolla)

di Piero Fabris

foto di Enzo Boni

Con le pellicole di Giuliano Montaldo si impara ad andare oltre la storia ufficiale. Giuliano Montaldo, ovvero l’attore, lo sceneggiatore e il regista è l’espressione migliore di quelle lezioni di cinema neorealista che in sé racchiude un’essenza narrativa attenta all’autentico, a quel vero, che non appare ma è la vera anima della gente. Un maestro della comunicazione che con la gentilezza e ironia ha saputo raccontare i fatti destinati a essere “volutamente rimossi” per apparire a tutti i costi brillanti e belli: pronti per il mercato del consumo.

Giuliano Montaldo con la moglie di Ettore Scola, Gigliola -Bif&st 2016

Pensando alla sua interpretazione di Giorgio, il vivace poeta ottantacinquenne e alla sua distanza da Alessandro il ventiduenne che accetta di far da accompagnatore nel film: “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni, mi sembra di cogliere una metafora tra un paese malato che vive del tempo sognato e una generazione di figure naufraghe alle quali è recisa la radice del “chi eravamo”. Passeggiare, dialogare, incontrarsi con altri è luogo dell’incontro e sempre un’occasione per ritrovare la propria identità; la strada, la panchina, la piazza sono i luoghi dove l’amicizia è uno stato magico dell’Essere, dove l’ascolto è la via per un dialogo costruttivo e arricchente. Montaldo sapeva dare la parola al popolo e meravigliarsi della genialità con la quale trovava soluzioni creative davanti a problemi del quotidiano. La gente si specchiava, si riconosceva nelle sue narrazioni. Una volta, in una sala cinematografica dove veniva proiettato il suo film tratto dal romanzo di Renata Viganò: “L’Agnese va a morire”, una signora che gli sedeva accanto, cominciò a battere le mani e a esprimere il suo apprezzamento per l’opera con forme vistose, il regista le chiese se era la prima volta che guardasse quel suo lavoro del 1976 e la donna rispose: “È tutta un’altra cosa guardarlo sul grande schermo!”. Ogni volta che ripenso al progetto Agnese va a morire, alla scelta di Ingrid Thulin come attrice protagonista, alle musiche, alle ambientazioni, alla determinazione nonostante “gli inviti” a non realizzare pellicole sulla resistenza, mi riscopro in un oceano di riflessioni, mi ritrovo a navigare in pensieri malinconici che aiutano a capire il perché il regista considerava quel film di tutti e un po’ suo. Mi piace immaginarlo raccolto davanti a una Olivetti numero 22 intento a dattilografare la sceneggiatura accanto a Nicola Badalucco per dare voce a chi scompare dalla storia, a chi è sepolto vivo, tradito dagli interessi della cultura omologante. Nell’arte di Montaldo vi sono tutti gli ingredienti per capire la realtà. Con le sue pellicole non si annega negli stereotipi, nei luoghi comuni o nella propaganda.

Giuliano Montaldo, Valeria Golino, Felice Laudadio, Bif&st 2016

In “Tempo di uccidere” tratto dal libro di Ennio Flaiano (premio strega 1947) e poi con “Gli occhiali D’oro” tratto dal romanzo di Giorgio Bassani, il regista ha messo a nudo l’ipocrisia di certi esseri incapaci di cogliere l’umanità e la ricchezza della diversità di una cultura che mette gli uni contro gli altri con la presunzione di una superiorità legata a titoli e appartenenze che creano solchi, separazioni, sospetti tra la gente. Chissà se il genovese Montaldo, degli esordi tra la passione per i teatri e, prima dell’invito di Carlo Lizzani a partecipare come attore all’impresa del suo primo film: “Achtung! Banditi!” avesse conosciuto Don Andrea Gallo, il prete degli ultimi? Colpisce di Montaldo l’onestà intellettuale e la capacità di stupirsi, di sentirsi come smarrito in una realtà tutta da capire, proprio come il protagonista del suo lavoro: “Tiro al Piccione” dove Marco, senza coscienza politica, si ritrova in mezzo a una guerra civile.  Farsi domande e andare oltre la propaganda dei cinegiornali è un viaggio tormentato verso se stessi! Il film fu un fiasco, eppur è bellissimo, sicuramente era lo specchio di un’Italia che non voleva riconoscersi sbandata. Rappresentava il bisogno di capire, di andare nelle profondità degli avvenimenti troppo spesso affidati a trafiletti di pagine sgualcite dalla superficialità, sulle quali la presunzione di sapere non si ferma è la chiave del suo impegno: rispettare e restituire dignità alle ragioni fuori il pensiero dominante. E’ la curiosità per ciò che accadde veramente la spinta per andare oltre! Dal regista, detto “il marziano genovese” si impara a soffermarsi a chiedersi: “Chi erano Sacco e Vanzetti? Chi era Giordano Bruno? Esseri umani uccisi dalla intolleranza, dalla paura del pensiero diverso, oscurati dal pensiero omologato che specie in momenti di crisi alimenta il sospetto, proprio come nel suo film del 2011: “L’industriale” dove Pierfrancesco Favino ben rappresenta Nicola, un industriale strangolato dai debiti della sua azienda, assediato dall’incertezza degli operai e dal proprio orgoglio, rappresenta l’incapacità di dialogare, di voler guardare per capire realmente il mondo che cambia e trovare soluzioni, finendo col compromettere i rapporti familiari e intorbidire i sentimenti. 

Giuliano Montaldo e la sua consorte Vera Pescarolo a Bari in occasione del Bif&st 2016

Il regista a proposito del lavoro su Giordano Bruno, o quello sul pugliese Nicola Sacco (interpretato da Riccardo Cucciolla) e il piemontese Bartolomeo Vanzetti (interpretato da Gian Maria Volonté), dichiara la sua “sana ignoranza”, il suo “non sapere” e grazie a tale consapevolezza che si comincia a far ricerca della documentazione, per capire, cercare, comprendere, conoscere. Solo la Cultura e l’Amore per il profondo possono salvare il futuro del mondo barbaro dei manipolatori! L’ignoranza è la radice di ogni pregiudizio! Viaggiare per esempio, sulle orme di “Marco Polo” (film del 1982 da lui diretto) è un modo di condividere certa esplorazione nelle città proibite, per superare il pregiudizio e condividere la meraviglia che è nella trama de “Il Milione” di scoperte e visioni, quelle che allargano la mente, arricchendola, liberandola da ogni paura dell’ignoto. L’intolleranza è un male da estirpare e il pregiudizio manda alla sedia elettrica la libertà di avere un’opinione diversa, la bellezza di guardare oltre la banalità. La cultura è l’ingrediente grazie al quale si fa discernimento. Grazie alla Cultura, la pistola non è un “Giocattolo” (film del 1979), per uscire da una vita anonima senza gioie e dolori, ma nemmeno per consumare vendette.  Da Giuliano Montaldo si impara a interrogarsi a fare i conti con i propri demoni interiori, proprio come il giovane Dostojevskij con le sue lettere giovanili o il richiamo a Bakunin nel film “I demoni di San Pietroburgo (del 2007) sono un invito a interpellarsi sull’idea di Rivoluzione alla quale bisognerebbe sostituire il termine evoluzione delle coscienze, una evoluzione che non distrugge, ma trasforma allarga le visioni sul pianeta come giardino pieno di aiuole dove è superata l’idea dell’interesse per il proprio orticello.  E il pensiero va a “Vera e Giuliano” ai loro sessant’anni di progetti comuni e sacrifici, di litigi di un attimo e di abbracci. Del loro criticarsi ferocemente e ironizzare su se stessi: una forma di complicità creativa dove sostenersi con complementarietà è fondamentale per la realizzazione di opere a tutto tondo. Indimenticabile il lavoro di Fabrizio Corallo sulla loro storia di coppia fuori dagli schemi, così ricca di testimonianze. Sembra che una volta, Vera e Giuliano andarono a vedere un film del 1954 dove il giovane Montaldo aveva partecipato come attore. La moglie in sala, ad alta voce esclamò: “Ma sei proprio un cane come attore!” Lui la lasciò indignato e lei lo raggiunse per abbracciarlo. Molti anni dopo, quando ricevette il premio per la recitazione, guardò la sua adorata e ponendosi davanti a lei avrebbe voluto abbaiare, ma non lo fece.    

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