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Intervista a Domenico Iannacone

di Cinzia Santoro

Domenico Iannacone: << È come se fossi un cercatore d’oro se così posso definirmi, vado setacciando il terreno. O meglio è come se fossi un rabdomante che cerca l’acqua, solo dell’acqua>>.

Domenico Iannacone

Domenico Iannacone, vincitore del Premiolino 2022 per il programma “Che ci faccio qui”,  è tra i giornalisti italiani che si sono contraddistinti per l’impegno profuso nella professione e per la difesa della libertà di stampa. E’ lui che propone un modo nuovo e diverso per fare televisione, puntando sul “tempo” come fondamento nella realizzazione dei suoi docu-reality. I protagonisti sono autentici nel raccontarsi in video e il giornalista indossa gli “stessi panni e le stesse scarpe” degli uomini e delle donne che condividono la loro esistenza con il pubblico televisivo. Le immagini scorrono lente, accompagnate da pause e silenzi che donano allo spettatore emozioni forti e trasporto. Il racconto è poetico e al tempo stesso efficace.
Domenico conduce con mano sapiente la realizzazione delle puntate, ognuna un piccolo capolavoro di partecipazione e comprensione estetica. Le storie sono il frutto di un dialogo attraverso la voce, il linguaggio del corpo, lo sguardo e le emozioni.

L’intervista

Ascolto attivo, empatia, assenza di giudizio e ricerca del tempo, ricorrono sempre nelle storie che racconti. Quando hai deciso che volevi proporre al pubblico questo modello?

Questo è il modello che ho sempre avuto dentro e che in qualche modo non ho potuto esprimere all’inizio della mia attività professionale.  Lavoravo in un contesto in cui c’erano già delle regole di narrazione, ero inviato per una trasmissione e il format aveva un’ altra anima. Quella esperienza  mi ha consentito di stabilire con me stesso un criterio narrativo per cui mi son detto chiaramente ciò che desideravo realizzare.  In realtà sono successe delle  cose in relazione al tempo che avevo a disposizione per raccontare, accadimenti che mi hanno portato a riflettere e mi sono chiesto: ” Se io non posso raccontare le cose come vorrei, allora sono imprigionato in un ruolo che non mi appartiene”. Da qui l’esigenza di essermi distaccato, decidendo finalmente di proporre un programma tutto mio, assumendomi tutti i rischi a cui potevo andare incontro perché non avevo assolutamente nessun tipo di paracadute. Ho lasciato il ruolo di inviato in trasmissioni ormai collaudate e che avevano la certezza di andare in onda, per qualcosa che era anche per me nuovo ed incerto.  Ho fatto questa scelta perché altrimenti non sarei stato vivo dal punto di vista professionale, se fossi rimasto non mi sarei sentito a posto. L’idea di non poter raccontare la storia con un tempo congruo per me era un’ amputazione, una limitazione della mia espressione.

Quali emozioni provi nell’ accogliere il racconto straordinario di uomini e donne comuni?

Mi sono sempre sentito attratto dalle “storie minime” . Dico sempre che le storie minime sono la cartina tornasole della vita in generale.  Dov’è la storia delle persone comuni lì mi ci tuffo,  è quasi istintivo. Non ho curiosità di quelle situazioni già  raccontate, più plateali, quelle non mi interessano. Il mio interesse è nello scovare nel minimo, cercare ciò che la vita restituisce alla gente comune. Il mio lavoro svolto in questi termini mi sta regalando soddisfazioni. È come se fossi un cercatore d’oro se così posso definirmi, vado setacciando il terreno. O meglio è come se fossi un rabdomante che cerca l’acqua, solo dell’acqua. Le storie minime sono acqua di sorgente, acqua che sgorga fresca, acqua pulita.

Come si colloca ” Che ci faccio qui” in questo momento storico e sociale che ci vede impauriti, indifferenti e indolenti per certi versi, dopo due anni di pandemia e ora con la guerra russo-ucraina?

Credo che i miei traversamenti siano una boccata d’ossigeno. È come se “Che ci faccio qui” uscisse dalla narrazione ossesiva, prima del covid e ora del conflitto. È quasi l’esigenza si spostare l’attenzione verso i temi della vita che pur esistendo, sono ottenebrati da una narrazione bulimica da parte dei media. In questo periodo non abbiamo alternative valide, perché se in questo momento accendo il  televisore sicuramente si starà parlando della guerra. Non dico che non se ne deve parlare ma quella informazione è solo una parte della realtà. Noi invece abbiamo bisogno di raccontare tutto ciò che ci circonda, proprio ora che ci stiamo riappropiando delle relazioni umane dopo due anni di restrizioni, che ci avevano debilitato dal punto di vista emozionale e relazionale. E quindi  piano piano ci stiamo riaprendo all’approccio, al contatto, alla dimensione dello scambio che era mancato quando eravamo impauriti, quando abbiamo indossato le mascherine, quasi calate sul viso a proteggersi e abbiamo metabolizzato le restrizioni, la mancata libertà. Adesso sentiamo il peso sul nostro futuro, come se questa guerra incombesse sulle nostre persone e sulle nostre vite bloccando nuovamente i nostri pensieri. Invece io credo che il nostro pensiero deve restare attivo, soprattutto in questo momento storico, un pensiero vigile che deve potersi esprimere in ogni senso e non soltanto sull’essere a favore o contro questa guerra. E proprio per questi motivi sono sganciato dell’agenda politica, dalla cronaca e da quello che fanno i TG e posso permettermi una narrazione più libera.

Che reazioni hanno avuto i dirigenti RAI alla tua proposta di narrazione intima dei docu-reality “I dieci comandamenti ” e Che ci faccio qui “, completamente contrapposti ai chiassosi e banali talk show che riempiono gli spazi televisivi?

Quando proposi questo genere di programma mi guardarono come se fossi un marziano, perché la mia idea era di rallentare, di reintrodurre le pause, di fare le inchieste morali. Dal punto di vista della drammaturgia era un voler ribaltare completamente la metodologia e ricordo perfettamente che proposi la mia idea al direttore dell’epoca, Antonio Di Bella che intuì il potenziale della mia proposta ma non nego che mi guardò con un po’ di sospetto. Anzi mi chiese se fossi sicuro di voler realizzare questo tipo di narrazione e se sapessi davvero come fare. Poi con Andrea Vianello questo progetto passò e produsse una nuova narrazione televisiva che era molto più vicina a quello che poteva essere la scuola documentaristica italiana e per certi aspetti e per sensibilità più vicina al cinema. Nel tempo questo tipo di narrazione ha preso piede e altri hanno voluto inserirsi in questa narrazione con mio grande piacere, perché alla fine questo modo di raccontare la realtà è stato riscoperto.

Tra le numerose storie che hai documentato quale ti ha più segnato?

Non posso rispondere a questa domanda, perché credo che tutte storie mi abbiano cambiato. La cosa che mi accade quando mi chiedono questo, è che io potrei dirti in questo momento sento più vicino questa storia ma so che domani il mio accostamento emotivo sarà per la prossima storia che narrerò . Quindi tutte le storie hanno avuto un ruolo, perché non sono state solo storie che io racconto dal di fuori, io ci finisco dentro le vite degli altri e le vivo pienamente. Sono giorni di immersione che trascorro con i protagonisti, con chi ha deciso di raccontarmi la sua esperienza aprendosi completamente. Sono giorni quasi di seduta psicoanalitica in cui io finisco con il diventare loro stessi.

Domenico un ‘ ultima domanda, in futuro  continuerai a raccontarci le storie di un Italia che soffre in silenzio?

In alcuni momenti io mi sento lontano dalla televisione. E questo mi fa essere molto critico con me stesso e mi pone una questione: ” Ho ancora voglia di stare in questa televisione? Ho ancora voglia di continuare a raccontare attraverso i docu-reality oppure devo inventarmi un’ altra cosa ?”  Oggi penso che potrei uscire dal video e lavorare sul meccanismo che potrebbe esserci in un teatro con un racconto orale non mediato dallo schermo.
È quello che inizio a sentire in maniera impellente, quindi prima o poi dovrò uscire dallo schermo tv. Già in radio sto sperimentando l’approccio con la voce, con l’oralità del racconto che non ha più nulla a che fare con il visivo.  Con la radio era solo un appuntamento rimandato che oggi sto vivendo.  Sinceramente dico che se dovessi pensare al mio futuro io vedo il teatro. Non vedo altre soluzioni se non l’idea del teatro civile.  Si il teatro civile sarà la mia prossima evoluzione. 

19 maggio 2022

One thought on “Intervista a Domenico Iannacone

  1. Sempre profondo, sempre vero e umano.
    Uscire dallo schermo per il teatro? Sì! Domenico! Mi sembra di intuire il tuo bisogno!!!
    Grazie!!!

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