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Matteo Gentile, scrittore eclettico e assertivo si confessa in una lunga intervista semiseria.

di Cinzia Santoro

Segno zodiacale del cancro, lavora come informatico e dedica l’altra parte della sua esistenza alle sue passioni, scrittura, teatro, lettura e tanta buona musica.

Matteo Gentile- selfie fra i trulli della sua terra

Matteo tre aggettivi  che ti rappresentano.
Sognatore, testardo, dinamico. A fattor comune: forse un po’ troppo!
Chi è il tuo scrittore preferito?


Ne devo citare tre, legati ai miei libri preferiti di sempre: Alessandro Manzoni per “I promessi Sposi”, Ken Follett per “I pilastri della terra, e Victor Hugo per “Notre Dame de Paris” e “I miserabili”. Quattro romanzi che ho amato molto, e che in un certo senso hanno poi influenzato il mio stesso modo di scrivere e vedere la scrittura come un espediente per indagare nell’animo dei cosiddetti “personaggi minori”, quelli che con le loro piccole storie contribuiscono poi a fare la Storia, quella che prima finiva nei testi scolastici e adesso nei notiziari. Di Manzoni, al di là dei ricordi scolastici, ho sempre amato la cura nella ricerca delle parole e le descrizioni accurate tanto degli aspetti paesaggistici, diciamo così, quanto delle sfumature dell’animo dei personaggi. Per me è indimenticabile la cosiddetta “notte dell’innominato”, dove viene descritto tutto il tormento di un uomo fino ad allora sicuro di sé, invincibile, messo in crisi da una persona apparentemente semplice come quella di Lucia. Una potenza descrittiva che, a mio parere, ha influenzato diversi scrittori del cosiddetto genere “noir”, quelli che scandagliano l’animo del “cattivo” o del serial killer, per cercare di capire da dove abbia avuto origine tutto il male che è in ognuno, pronto a esplodere se non viene “soffocato” e combattuto dall’altra parte di noi, quella che ci spinge invece alla ricerca del “bene” per sé e per gli altri. E poi le grandi ricostruzioni storiche di Ken Follet, nel quale ritrovo molto del Manzoni e dello stesso Hugo. La cattedrale di Kingsbridge e Notre-Dame de Paris hanno molto in comune, secondo me, proprio perché rappresentano il grande sogno dell’uomo che cerca di elevare sé stesso attraverso le grandi opere e le grandi passioni che fanno della vita di ognuno una storia unica e meravigliosamente inimitabile.

I tuoi romanzi. Quando hai pubblicato il tuo primo lavoro?


Ho scritto e pubblicato due romanzi, nel 2011 “Danza di passione” e nel 2017 “La coscienza del male”. Nel 2021 ho invece curato la traduzione di una raccolta di racconti di uno scrittore colombiano contemporaneo: “I piedi di Dio”, di Léon Sierra Uribe, che conto di riportare in giro a breve, situazione permettendo, perché credo ne valga la pena, e non certo perché l’ho tradotto io, anche!

Il teatro è la tua grande passione. Cosa ci racconti?


La passione per il teatro è ciò che si potrebbe definire “il mio primo amore”, quello che “non si scorda mai”, e risale addirittura alla mia prima infanzia. E’ protagonista in uno dei miei primi ricordi, e risale alla mia prima recita di Natale nel nuovo asilo svizzero. Ero italiano, avevo quattro anni, e dovevo integrarmi alla svelta. Dovevo interpretare un semplice pastore e pronunciare una sola frase, in tedesco, ma dovevo farlo al momento giusto. Non ricordo assolutamente cosa dissi, ma ricordo una sensazione di “appagamento” nel riuscire a fare qualcosa che poteva sembrare impossibile agli occhi di un adulto, ma non al cuore dei tanti bambini con cui interagivo senza alcun tipo di problema. Forse è quello il segreto del teatro inteso come scuola di vita: la complicità con i compagni, il rispetto dei ruoli, lo stupore nella realizzazione di qualcosa apparentemente magico, il far passare un messaggio, semplice o complesso che sia. Ho ripreso in seguito con le classiche recite scolastiche, una volta tornato in Italia, ma anche i recital all’oratorio, quando da adolescenti ci ritrovavamo a inventarci storie per raccontare sensazioni che facessero passare un messaggio.

Hai anche scritto testi teatrali. Quali?


Qualche commedia nelle compagnie amatoriali, per poi cimentarmi nella scrittura con “Occhio Pino”, messa in scena in diversi teatri pugliesi dalla compagnia “Le Quinte” per la regia di Pasquale Nessa, in ricordo di Mattia Tagliente, e “In acque libere” scritta a quattro mani con il regista Carlo Dilonardo e messa in scena nell’ambito di un progetto Sprar. Per approdare nell’associazione Riflessi d’Arte per cui ho scritto, e diretto insieme con Elina Semeraro, “Striscia il racconto”, “Belle per scelta”, “Ma cos’è questo pop”, andati in scena nell’ambito di “Sinfonie letterarie” a “Vicoli degli artisti”, e infine “La fabbrica dei sogni” e “Mitico amore”, in scena nell’ambito del Festival dell’Immagine. Il tutto fatto sempre con grande passione, comunque documentandomi su testi specializzati e studiando i lavori dei “grandi”, con uno spirito di fondo che cerco sempre di mettere al primo posto quando mi ritrovo a interagire con attrici, attori e, soprattutto, con il pubblico che ci dà fiducia: la condivisione di una passione attraverso l’impegno e la collaborazione. E il rispetto soprattutto dei rapporti umani, che ritengo venire sempre al primo posto rispetto alla performance artistica, tanto “dietro le quinte”, quanto “sul palco”, e ovviamente “oltre il sipario”. Continuo a vedere il teatro come una scuola di vita, una palestra dove non si allenano i muscoli, ma si fanno grandi esercizi mentali ed emotivi. Mettendosi sempre in gioco, come nella vita e, scomodando un Autore vero: “perché gli esami non finiscono mai”.

Tra le altre passioni c’è quella per il calcio. Che squadra tifi?


Milan! E’ quello che definisco la mia parte “infantile”, quello che mi fa esultare e “disperare”, ma che mi riporta inevitabilmente all’infanzia e all’adolescenza, ai pomeriggi con l’orecchio attaccato alla radiolina a transistor o davanti alla tv aspettando Novantesimo minuto. Persino alle notti insonni delle finali intercontinentali passate con mio padre, e le bandiere per strada quando si vinceva, e gli sfottò con i cugini e gli amici juventini o interisti. O alle partite a San Siro e a Lecce in compagnia delle mie figlie, quando tifavano per Shevchenko e Kakà. E a tutti i momenti conviviali passati a guardare un derby o una finale di Champions con gli amici, tra birre, panzerotti e una sana “rivalità” sportiva. Forse in questo senso sono un po’ romantico, ma d’altronde nessuno è perfetto!
Se potessi cenare con tre personaggi famosi che non vivono più, chi vorresti incontrare? Perché?
Mi piacerebbe cenare con Gesù Cristo, magari non all’ultima cena però, per cercare di capire cos’è davvero questo Amore di cui ci ha voluto parlare, e per il quale si è anche fatto uccidere.  Forse siamo così spaventati da questo amore, che ci porta a volte a dover fare anche delle piccole rinunce, da averlo perso di vista o da averlo addirittura rinnegato in nome di un presunto amor proprio. Poi mi piacerebbe pranzare con un panino al polpo, seduti sulla sabbia di fronte al mare, con Lucrezia Borgia, per cercare di capire qualcosa su questo misterioso mondo che è la donna, penso che ne avrebbe di cose da raccontare! Magari mi insegnerebbe anche qualche trucco per evitare rischi da “avvelenamento” … sentimentale. E poi un pranzo informale su una barca a vela, in mezzo al mare, ovviamente a base di pescato fresco, lo farei volentieri con Cleopatra. Sarebbe davvero affascinante farsi spiegare da una donna così bella e potente come lei perché l’amore è così devastante da far perdere la testa per un’altra persona, come narra la storia, o se invece la verità è un’altra, e che l’amore è invece un modo per vincere, o affrontare almeno, la paura della morte.

Matteo Gentile

Che libri stai leggendo?


Ho appena terminato “La casa senza ricordi” di Donato Carrisi, amico e autore che apprezzo già da quando, giovane studente, metteva in scena al Teatro Verdi di Martina Franca “Molly, Morthy e Morgan” con la sua compagnia teatrale Vivarte, di cui facevano parte alcuni miei amici. Il genere noir e i cosiddetti gialli mi hanno sempre “preso”, soprattutto se riescono a tenerti “incollato” alle pagine e ti sfidano a cercare il colpevole. Ho passato ore in treno durante l’università a divorare i gialli di Agata Christie e altri classici, sfidando Poirot o Miss Marple nella ricerca del colpevole, perdendo quasi sempre la sfida… a proposito, ho visto con piacere proprio in questi giorni il film “Assassinio sul Nilo”, e nella mia “deformazione professionale” ho comunque apprezzato la trovata registica per cui la scrittrice di romanzi rosa diventa nel film un’apprezzata cantante jazz, anche se ho qualche perplessità sulla chitarra elettrica utilizzata in scena, visto che la prima Gibson (me lo dice Google) fu costruita nel 1935 e l’ambientazione del film è datata 1937. Comunque, tra un noir e un romanzo come “Amuri” di Catena Fiorello (quante coincidenze con la mia vacanza a Malta la scorsa estate…), sto anche leggendo “Le confessioni” di Sant’Agostino, perché mi affascina e mi incuriosisce il mistero dell’intelletto umano che si rende conto dei propri limiti ma che da essi cerca di trovare gli stimoli per emergere dall’indifferenza e dalla futilità delle cose. E conto di leggere quanto prima, tempo di scrittura di un nuovo progetto permettendo, il nuovo romanzo di Ken Follett, “Per niente al mondo” che, a quanto apprendo sempre da Google, affronta lo scenario di un mondo alle soglie di una nuova guerra planetaria, nella speranza che sia un modo per esorcizzare la preoccupante realtà dei venti di guerra che i notiziari ci stanno raccontando, vorrei sperare enfatizzandoli…

Matteo la musica occupa un posto speciale nella tua vita. Quale sarebbe il tuo tema musicale ogni volta che entri in una stanza?


Dipende dalla stanza e dal momento… a volte potrebbe essere il tema di “Profondo rosso”, perché magari ritorna in me, affrontando una situazione nuova, quella paura che da bambino mi portava a entrare in una stanza con gli occhi chiusi cercando a tentoni l’interruttore per non vedere “il nulla” del buio, con il timore di trovarci dentro chissà cosa o chissà chi. Oppure in altre circostanze sarebbe auspicabile sentire il tema di “Nove settimane e mezzo”, che ci riporta inevitabilmente ai tempi dell’adolescenza e alla mitica scena in cui Kim Basinger accendeva mille pensieri “peccaminosi”, e che oggi sembra quasi una scena da educanda, o quanto meno romantica e sensuale “il giusto”, rispetto all’attuale sovraesposizione della sessualità. Oppure il tema della battaglia de “Il gladiatore” ogni volta che si entra in ufficio e si affronta la nuova giornata lavorativa. Ma anche un brano di Claudio Baglioni o dei Pooh se si vuole entrare in una stanza rassicurante. O un brano dei Nirvana o dei Kiss, tipo “I was made for lovin you” se la stanza in cui si entra è l’anticamera di una nuova sfida, di qualunque tipo essa sia.
Ieri è stato San Valentino. Credi nell’amore?
C’è una domanda di riserva? Posso chiedere l’aiuto da casa? In effetti è una domanda alla quale sono secoli, millenni che l’uomo cerca di dare una risposta. Come dicevo prima, chiederei un aiuto ai tre personaggi famosi per capirci qualcosa. Ma in ogni caso, credo che credere nell’amore, perdonate il gioco di parole, sia comunque un atto di fede. Nel giorno di San Valentino, per esempio, ho ironicamente e un po’ provocatoriamente pubblicato sui social e su whatsapp un post in chi mi dichiaravo “in silenzio stampa”. Perché di amore ne parliamo un po’ tutti, a sproposito o a ragione, ma poi alla fine non possiamo non concordare con il Sommo Poeta che affermava come l’amor sia ciò “che muove il sole e l’altre stelle”. Ogni cosa che facciamo è un atto d’amore, dalla più insignificante alla più importante azione o scelta nella nostra vita. La vita stessa è generata da un atto d’amore (qui si potrebbe discutere a lungo, ma lasciatemi la poeticità dell’immagine). Nessuno nasce imparato, direbbe mia nonna, e l’amore non si impara né si insegna. Si dimostra, questo sì, e ne sono convinto. A volte si parla anche troppo dell’amore cosiddetto “erotico” (dal greco eros, per intenderci) quello tra due persone attratte sentimentalmente e fisicamente. Io stesso magari lo inserisco tra le tematiche di ciò che scrivo, che sia anche l’amore per un’ideale o per un essere vivente o non vivente, sempre che la Natura nel suo insieme non sia in realtà un grande essere vivente essa stessa. In questo senso devo citare un altro libro che mi ha profondamente segnato, “L’arte di amare” di Erich Fromm. Come per tutte le arti, diceva lo psicologo tedesco, l’amore non si basa soltanto sul talento innato, ma deve essere supportato dalla buona pratica, dall’esercizio costante, dalla ricerca continua. Amare non vuol dire possedere qualcosa o qualcuno in maniera esclusiva, limitare la libertà dell’altro o dell’altra, in un rapporto di coppia, né tanto meno escludere sé stessi e il partner dal mondo. Amare è sentire la responsabilità per l’altro, prendersene cura, senza annullarsi e senza che nessuno prevarichi l’altro. Io credo che possa esistere anzi, che esista, l’amore. Diciamo che più che credere nell’amore, credo l’amore. Nel senso che, a mio parere (opinabile, naturalmente), l’amore sia un’entità infinita, e che ognuno di noi abbia la capacità e il diritto di farne parte, ognuno secondo le proprie caratteristiche individuali, sempre rapportate all’Altro, chiunque o qualunque cosa esso sia. Fino a prova contraria, io ci credo.

Come ti immagini fra 20 anni?

Come direbbe mia nonna: “se Dio vuole, a scrivere davanti al mare, per poi veder quel che ho scritto stampato e magari rappresentato sul palco di un teatro di provincia.

23 febbraio 2022

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