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Intervista a Sara Ciafardoni autrice di “La ragazza che scrive”

francesco guida

di Francesco Guida

Sei autrice di “La ragazza che scrive”. Come nasce l’idea di scrivere questo libro?

Sono felice di dire che La ragazza che scrive è stato il primo libro pubblicato a livello nazionale, con Mondadori Electa, e questo lo rende per me particolarmente speciale. È stato l’inizio di un percorso che oggi conta anche altri romanzi, ma questo resta il primo amore. Credo che ogni forma d’arte, scrittura inclusa, nasca da un’esigenza profonda. In quel momento della mia vita sentivo il bisogno di mettere nero su bianco sentimenti ed emozioni che mi abitavano dentro, e Lucia, la protagonista — che per amici e familiari si chiama affettuosamente Luce — è stata davvero una luce anche per me. A distanza di anni, so che non ho scritto solo la storia di un’adolescente, ma un racconto collettivo: quello di chiunque si sia mai sentito invisibile, vuoto, rotto. E in quella rottura ha trovato un varco, una rinascita.

Sara Ciafardoni

Luce mi ha tenuto la mano quando io non sapevo farlo da sola. E in fondo, questo libro è il mio modo per dirle grazie.

Oltre ad essere scrittrice, studentessa e voce dell’inclusione: cosa ti ha portata qui, nella cornice di Putignano?

La motivazione principale è stato il TEDx, dove ho avuto l’onore di essere una delle nuove speaker di quest’anno. Pur essendo pugliese, non ero mai stata a Putignano, quindi è stata anche l’occasione perfetta per scoprire un angolo della mia regione che ancora non conoscevo.  Ma la verità è che non ci si ritrova mai in un luogo solo perché si è stati chiamati. Ci si arriva perché qualcosa dentro di te, un passo alla volta, ti ci ha condotto.

Putignano è il punto d’approdo di un percorso iniziato molto prima: quando ho iniziato a scrivere, a parlare di libri sui social, a unire cultura e sensibilità, a raccontare ciò che spesso viene taciuto. Quando ho scelto di far convivere nei miei contenuti emozione e pensiero, estetica e attivismo.

Sara Ciafardoni

Ma una  volta arrivata, ho sentito di esserci sempre appartenuta. Come se tutto quello che avevo vissuto — lo studio, la scrittura, la malattia, la ricerca di senso, le voci incontrate lungo la strada — mi avesse preparata proprio a questo: a salire su un palco e dire la mia. A rappresentare, nel mio piccolo, il Sud che resiste, che sogna, che crea.

Perché sei colpita da temi come quello dell’habitat?

“Abitare” è sempre stato un verbo complesso per me. Non l’ho mai legato semplicemente a una casa, a delle mura, a un indirizzo. Da quando ero piccolissima ho cambiato città, scuole, abitudini.  E così ho imparato presto che non esiste un solo modo per sentirsi a casa. Quando ho iniziato a lavorare sul mio speech per il TEDx, uno dei primi temi che ho voluto affrontare è stato proprio l’habitat. Ma non in senso metaforico o arredativo — in senso biologico. L’habitat, in natura, è quel luogo che permette agli esseri viventi di sopravvivere, crescere, prosperare. È una condizione vitale, non estetica. E spesso, purtroppo, ce ne dimentichiamo. Ci dimentichiamo che anche noi abbiamo bisogno di trovare il nostro habitat. Non solo fuori, ma anche dentro. Perché abitare significa anche scegliere uno spazio emotivo che ci nutra, che ci accolga, che ci faccia fiorire. E quando non lo troviamo fuori, dobbiamo essere capaci di costruircelo dentro. Di inventarlo, immaginarlo, difenderlo.

20 maggio 2025

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