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Ci lascia Gianfranco Baruchello – Il grande artista dei sogni e segni inespressi

di Rossella Cea


Per lui l’ Arte era soddisfazione di bisogni primari, non futili. Arte come utopia,
azione politica e poetica allo stesso tempo. Arte anche come la grande impresa
della vita:”… la mia idea era che tutto questo sarebbe stato arte, arte e non
economia, che l’arte sarebbe potuta divenire un esempio su base puramente
umana, non più legata allo sfruttamento, e che alla fine ci sarebbero state tante
patate da poterle regalare a tutti».

Così Gianfranco Baruchello pensava l’ Arte,
che, attraverso la sua personale visione espressiva, diveniva dialogo tra mondi
opposti, talvolta percorso di elementi di scarto, come a rivalutarne
profondamente l’importanza. Nato nel 1924,si era laureato in legge, iniziando
una brillante carriera aziendale. Un viaggio prima a Parigi e poi a New York
aveva rappresentato per lui come una folgorazione, che metteva a nudo quel che
non funzionava nella vita condotta fino ad allora: in Francia conobbe l’artista
cileno Sebastian Matta e il poeta Alain Jouffroy, a Manhattan incontrò Marcel
Duchamp e divenne suo intimo amico.

Decise così di dedicarsi all’arte passando
per gli studi di Wittgenstein e della filosofia del linguaggio. La sua poetica ha
dato il via ad un viaggio originalissimo che presto avrebbe abbandonato le
suggestioni dell’espressionismo astratto americano per approdare sin dai primi
anni ’60 ad una critica anche radicale delle strutture codificate della società. Non
lo fará mai, però, cercando la retorica, né attraverso lo scontro diretto, ma
mettendo in gioco strumenti apparentemente superficiali, in grado però di
scuotere gli equilibri dall’interno. Agisce con una pittura di accostamenti
materici e soluzioni espressive atipiche, sempre in dialogo con una dimensione
onirica: quasi un percorso per puntare al cuore semplice delle dinamiche
espressive. Amava il linguaggio cinematografico. Nel film Verifica
incerta (Disperse Exclamatory Phase), realizzato nel 1964 in collaborazione con
Alberto Grifi, aveva recuperato 150.000 metri di pellicola di scarto del cinema
commerciale americano degli anni ’50 e ’60. Da quel materiale aveva ricavato un
montaggio incollando gli spezzoni di pellicola con il nastro adesivo: un massacro
cinematografico di film hollywoodiani, rimontati pensando al Dadaismo. Era
stato Marcel Duchamp a battezzarne la prima alla Cinematéque Française a
Parigi nel 1965; John Cage lo aveva poi portato al Moma di New York, entusiasta
della colonna sonora da lui creata.


È proprio la poetica del montaggio a far da filo conduttore di tutta l’opera di
Baruchello. Una poetica che gli ha permesso di avvalersi di materie e simboli
anche completamente dissonanti, quando organizzava le sue bacheche e i suoi
archivi visivi dove convivono e si articolano tra di loro oggetti fisici e forme
segniche. Nello spazio asettico di una scatola possono prendere vita i suoi
itinerari labirintici, con quei minuscoli disegni dal tratto nero e secco, con le
scritte minute che navigano libere e sincere negli spazi. Un artista dalla
personalità complessa, ma nello stesso tempo semplicissima, che è riuscito ad
inventare qualcosa di nuovo e ad essere un esempio per un’intera generazione.
Ha attraversato con coraggio e ironia i territori dell’utopia e dell’immaginazione,
i percorsi inesplorati dell’anima e della mente. Facendone arte, quando ancora
arte non era. Che si tratti di scelte plateali o di codici cifrati, l’ impegno e l’
autenticità di Baruchello hanno creato un mito che difficilmente
dimenticheremo, specialmente in questo periodo difficile, di carestia artistica e
vuoto esistenziale.

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