Si è concluso su “Nove” Leaving Neverland: non assolvo jackson, ma nemmeno le famiglie delle vittime Attualità TV 24 Marzo 201924 Marzo 2019 di Romolo Ricapito Il filmato Leaving Neverland diretto da Dan Reed, di 236 minuti e quindi trasmesso in due parti da Nove, è stato mandato in onda con brevissimi stacchi pubblicitari, lontani l’uno dall’altro. Questa è una nota di merito in favore di Nove. Gli interpreti, ovvero i giovani uomini abusati Wade Robson e James Safechick hanno sputato il rospo: furono violentati da Michael Jackson, il primo dai 7 ai 14 anni. Chiamati a difendere il loro idolo durante la prima tornata del processo sugli abusi subiti da un terzo ragazzo, negarono le violenze perché irretiti dalla popstar durante la relazione, dunque in forma pregressa. Mentire, negare, spergiurare perché altrimenti “sarebbero finiti in galera con Jacko” come egli li istruì. Anni dopo, nel 2013, Robson denunciò gli abusi in tv. Robson e James, di bell’aspetto, ci confondono nel trasmettere le loro emozioni. Ovvero, le loro storie sono talmente simili che a volte lo spettatore appare interdetto. Molto simili anche le madri dei due giovani, che hanno il difetto (se gli abusi sono realmente avvenuti) di avere consegnato di fatto i loro bambini nelle mani di una star adulta, abbagliati dal successo e dai soldi di quest’ultima. E’ impossibile scindere l’ambiguità dei due giovani uomini e delle loro famiglie con quella di Jackson, esteriormente evidente. Credere che un cantante sia un benefattore, un Peter Pan, solo perché la facciata pubblica è quella di un amico dei ragazzi, è assurdo. Le altre postar o rockstar non hanno mai invitato a casa loro frotte di ragazzini intrattenendoli con giochi vari e trenini o con stanze mirabolanti per lusso, sfarzo e kitsch. In un’ America da sempre razzista contro i neri, siamo in controtendenza. Famiglie di bianchi adoranti per un afroamericano che ha smesso di esserlo, per atteggiamenti e operazioni chirurgiche facciali e dall’altra parte un nero che si avvicina esclusivamente a ragazzini bianchi. Il tutto nella massima fiducia dei genitori e di una grassa sorella che ricorda con affetto nella prima parte il povero Michael e solo alla fine si mostra sconvolta perché egli era un orco. Si crede alle storie degli abusi, ma è incredibile pensare che due ragazzini cresciuti in un’America che mostra omicidi, violenze e sesso in tv, riescano a fare sesso in privato con un uomo adulto per anni e anni senza protestare e credendo sia lecito e poi nell’adolescenza e dopo, fino all’età adulta, continuare a mentire su ordinazione credendo intimamente di amare Michael Jackson in senso lato. Di un amore puro e sacro. E che il sesso fosse una cosa normale. Belli e addormentati: Wade Robson si risveglia dall’incantesimo alla nascita del figlio e ha un trauma immaginando il piccolo che viene molestato dal suo molestatore. Ancora, Robson diventa un abile coreografo e ballerino sull’onda della spinta e degli insegnamenti di Michael Jackson e lavora con star come Britney Spears e N’Sync. Impossibile scindere il suo status di star a sua volta da quello della star morta. Ovvero il giovane si è realizzato sull’onda dell’imitazione del suo idolo e le sue imbeccate. Dà fastidio ascoltare che la popstar tendeva a convincere i giovani ad abolire un’istruzione scolastica regolare, sostenendo che le vere star e le persone capaci vanno poco a scuola. E che i genitori obbedissero ai diktat della star, abolendo ad esempio le lezioni di matematica per il loro pargolo. Ancora, i padri sono assenti. Pare di osservare che delegassero l’educazione e dunque l’affidamento al cantante per conto delle loro mogli, donne tanto affettuose quanto decisioniste. Addirittura una di esse dopo avere considerato Jackson “un figlio” con frasi “se va in prigione per gli abusi non sopravviverà” alla notizia della morte del cantante ballava sul letto cantando: “adesso non molesterai più nessun bambino”. I molestati alla fine risultano simpatici, le madri meno, l’immagine di Michael Jackson è irrimediabilmente, forse anche giustamente distrutta. Leaving Neverland è dunque un atto di accusa contro una società americana che crede troppo ai miti, che manca di formazione e cultura, che si piega al dio denaro, che diventa stupida davanti alla prima star che più sregolata e svitata meglio è, si può affidarle le chiavi di casa. E’ ambigua anche la storia che vede Jackson farsi carico del mutuo della casa comprata da una delle famiglie in oggetto. In definitiva piangere sul latte versato coesiste con una “svendita” affaristica della propria reputazione salvo poi, dopo la morte del divo di Thriller, puntare l’indice e magari anche chiedere i danni che dovrebbero essere forse pagati dagli eredi. 23 marzo 2019