Riaperta la sala del Colonnato del Palazzo di città Metropolitana con la presenza di Sergio Rubini Arte Cinema Cultura Eventi 27 Marzo 20251 Aprile 2025 di Maria Silvia Quarantafoto Francesco Guida Opera monumentale Islam Il 26 marzo il Palazzo della città Metropolitana di Bari ha aperto le sue porte al Bif&st con l’esposizione, nella sala del Colonnato, dell’opera monumentale “Islam” (installazione del 1998 in legno d’abete d’Aspromonte) dell’artista barese Franco Dellerba. Il Colonnato riapre dopo tre anni di chiusura dovuti ai lavori di restauro delle facciate dell’edificio storico. Un evento che ha visto la presenza della consigliera metropolitana delegata alla tutela e valorizzazione della Pinacoteca Micaela Paparella e dell’artista Franco Dellerba con il successivo incontro, presso la sala conferenze della Pinacoteca metropolitana Corrado Giaquinto, organizzato in collaborazione con la Società Italiana di Scienze Umane e Sociali (SISUS) e con il Dipartimento Agricoltura, Sviluppo Rurale e Ambientale della Regione Puglia, che ha visto la partecipazione del regista e attore pugliese Sergio Rubini, con cui ha dialogato Luigi Mantuano, vice presidente SISUS. Micaela Paparella con Franco dell’Erba Micaela Paparella ha voluto inserire questo evento all’interno del Fuori Bif&st, che quest’anno coinvolge i cinque Municipi di Bari, dalle strade ai musei cittadini ai palazzi istituzionali. La consigliera ha presentato Sergio Rubini, il regista che racconta le storie del nostro territorio donandogli una luce come nessun altro e che nel 2009 incentrò tante scene del suo film “L’uomo nero” proprio nei saloni della Pinacoteca dove veniva esposto un dipinto del pittore francese Paul Cèzanne: in realtà era un’invenzione del regista, ma non è stata una scelta casuale perché il papà Alberto Rubini amava questo artista ed aveva una grande passione per la pittura a cui si dedicava con grande trasporto; Alberto Rubini era capostazione di professione, però aveva questa forte vocazione artistica. Ha quindi fatto omaggio al regista di una recensione scritta da Pietro Marino il 21 gennaio 1968 su una mostra del padre, recuperata dagli archivi storici della Gazzetta del Mezzogiorno. Durante l’incontro si è voluto entrare nel mood artistico del lavoro di Rubini, cercando di parlare e far incrociare arte, creatività, vocazione, scoperta della passione che attraversa tutta la sua cinematografia da “La stazione” a “Leopardi”. “Un film sul ricordo lo puoi fare, ma non lo puoi fare stando nel ricordo, puoi farlo se quel luogo è stato abbandonato” è una sua citazione, ed esiste un particolare rapporto tra partenza, restare o tornare e il senso di lontananza che c’è anche nella relazione più intima qual’è quella amorosa. Si devono fare i conti con il desiderio che nasce dall’abbandono e dall’abbandonare, che appare nel suo lavoro con il cinema e nel rapporto che unisce la terra natale, Roma e il mondo. Dal primo film si è immersi in questo senso di abbandono, di ritorno, di scoperta mai completamente afferrata, come “Nel viaggio della sposa” dovenon c’è una fine, ma è tutto un ricominciare, un rigenerarsi. Sergio Rubini si racconta al numeroso pubblico presente Ha raccontato Rubini: “Il cinema da solo non può esistere; ogni regista non può mai prescindere dalla propria storia personale. Io sono andato via a diciott’anni perché avevo deciso di provare ad entrare all’Accademia d’arte drammatica a Roma e fui preso. Subito compresi che se non avessi messo in ballo la mia biografia, la mia storia non avrei avuto nulla da dire, perché era la cosa più preziosa che mi portavo dietro, era il mio capitale. Già dall’Accademia cominciai, anche sulla base di alcuni spettacoli di Carmelo Bene che avevo visto, ad arricchire i monologhi che facevo mettendoci dentro sempre qualcosa di mio, che poi ha a che fare con il mio luogo e con la mia terra. Io non sono andato via dalla Puglia perché stavo male dentro il mio paese d’origine (avevo un gruppo di amici fantastici e avevo un ottimo rapporto con i miei genitori), ma semplicemente perché quello che volevo fare non si poteva fare a Grumo (pochi chilometri da Bari). Ciò nonostante, ho assaporato quella strana sensazione dell’esule, cioè di chi va via e in qualche modo guarda il proprio luogo d’origine con uno sguardo diverso, filtrato sempre da un po’ di nostalgia perché hai dato uno strappo, e quindi qualsiasi cosa riguarda il tuo luogo è sempre una citazione non è più un’azione normale, un gesto puro privo di un’intellettualizzazione, ma diventa il frutto della memoria, una riproposizione. Questa cosa in qualche modo intristisce perché per me Grumo è diventato uno spazio della mente non è più uno spazio geografico, e quando lo racconto è come se fosse un luogo che ha a che fare con i fantasmi. Però tutto questo coincide con la rappresentazione di un luogo immaginifico, e il cinema si ciba di questo tipo di ingredienti. Quando ho iniziato a fare film, ho cominciato a pensare che avrei dovuto riprodurre tutto quello che avevo perduto e raccontarlo non necessariamente in maniera veritiera (che è inutile), perché secondo me si fa un film per raccontare come avresti voluto che fossero andate le cose, per aggiungere dei pezzi, per vivere un amore che non hai mai vissuto, per dire delle parole che non sei mai riuscito a dire, per sentirti dire delle parole che avresti voluto sentirti dire e che nessuno ti ha mai detto. E quindi ho cercato di fare dei film che mi assomigliassero non per ciò che ho vissuto, ma per ciò che avrei avuto il piacere di vivere, cercando di utilizzare il cinema come uno strumento che mi raccontasse alla luce della mia verità interiore. Io ho la convinzione che la vita ci modifichi profondamente, per cui noi siamo veri quando raccontiamo ciò che avremmo voluto essere e non ciò che siamo, perché ciò che siamo è una grande menzogna a cui ci porta la vita. Questa mattina al Petruzzelli citavo Leopardi: quando stava a Recanati, a differenza mia, la detestava ma non appena andava a Pisa c’era una strada che si chiamava Via delle ricordanze, lui camminava per quella strada che l’aiutava a ricordare Recanati; Leopardi detestava Recanati però alla fine le sue poesie più grandi parlano di questo posto, è stato un provinciale. Io ho accettato la mia condizione di provinciale con la consapevolezza che fosse un ingrediente necessario alla possibilità che potessi essere autore dei miei film, facendo i conti col mio esserlo per poter raccontarmi meglio”. Sergio Rubini vede l’artista come un esploratore, che nel momento in cui raggiunge una meta deve continuare ad esplorare altrimenti non lo sarebbe più. “La meta è la fine di una giornata, di un viaggio, ma è anche l’inizio del viaggio successivo. Quindi io ritengo di essere semplicemente all’inizio del mio viaggio successivo indipendentemente dalla mia età anagrafica: più diventi vecchio è più hai una frenesia e una voglia del fare, e quindi di continuare questo viaggio d’esplorazione. Quanto invece al desiderio dell’altrove, questa è una condizione tipica del provinciale che sogna sempre un altro luogo, un luogo in cui tutti i suoi desideri possano in qualche modo realizzarsi. Io ho vissuto per 18 anni la vita del mio paese e sognavo l’altrove, sognavo questa sorta di Bengodi dove tutti i miei sogni avrebbero potuto trovare la loro realizzazione. È chiaro che poi, quando comincia il viaggio, capisci che hai perso la materialità del tuo luogo, e la condizione dell’esule è quella che ti permette di guardare con più obiettività, perché proprio la lontananza è lo stato per mettere a fuoco ciò che hai perduto ma allo stesso tempo ti produce una profonda inadeguatezza. Infatti, io non posso dirmi romano, pur essendo di adozione perché vivo a Roma da oltre quarant’anni, e non sono neanche più di Grumo perché non ci vivo da 45 anni; quindi, perdi completamente la materialità dell’appartenenza reale che diventa mentale. Però per uno che fa il mio lavoro è una condizione quasi privilegiata; la condizione dell’esule impone una sorta di dialettica e nutrimento interiore, e questo dialogo intimo mi porta a venir fuori con una storia che ne è il prodotto finale, e poi tutto torna com’era. Io ho fatto due film che si assomigliano, per certi versi, “La stazione” e “Il viaggio della sposa”, poi ho cambiato direzione: prima avvertivo una sorta di inadeguatezza, proprio come condizione del provinciale, immedesimandomi molto nel capostazione de “La stazione” o in Bartolo nel “Viaggio della sposa”, perché vedevo la donna come se fosse non un oggetto del desiderio ma una possibilità di affrancarmi dalla mia condizione. Poi in realtà a quarant’anni ho cominciato a fare dei film diversi, forse per l’arrivo della maturità, e non ho più pensato che sarebbe stato un amore, una donna a permettermi di cambiare pelle; probabilmente l’età e l’esperienza mi permettevano di mostrarmi nella mia nudità per quello che ero e senza più paura, e quindi ho fatto film più autobiografici. Come Ulisse ho fatto un percorso più d’avventura fino a un certo punto, e dentro questo percorso le donne e l’amore mi davano l’idea di potermi riscattare, poi invece è arrivata un’epoca diversa in cui ho pensato che fosse arrivato il momento di accettare la maturità e la responsabilità di governare la propria vita”. Parlando dell’amore il regista ha confessato la sua personale esperienza, e della difficoltà che è tutta nell’abbandonarsi all’amore, perché amare significa perdere le redini di comando della propria vita, demandare gran parte dei gesti e delle azioni ad un’altra persona estranea da noi. “Io per molti anni della mia vita ho fatto in amore tanti guai, perché scappavo costantemente dall’amore proprio per quella inadeguatezza che poi ho rappresentato nei miei personaggi; scappavo ed avevo una sorta di talismano tutto mio, cioè facevo una smorfia ogni qualvolta mi capitava di dire “ti amo”, come a precisare che l’avevo detto ma non mi stavo impegnando. Poi invece ho cominciato ad andare da un analista, a raccontare le mie sofferenze che producevano tanta sofferenza. Ho avuto in quel periodo anche la fortuna di incontrare un grande scrittore Domenico Starnone che mi ha spiegato una cosa: io fino a quel tempo raccontavo i miei film agli sceneggiatori che poi li scrivevano e io li correggevo; quando ho incontrato Starnone mi ha detto che dovevo partire “dallo strazio della pagina bianca”. E quindi la scrittura in qualche modo mi ha imposto questo viaggio interiore, così come andando da un analista. E a quel punto ho accettato l’idea di abbandonarmi al sentimento dell’amore; a piccoli passi mi sono fidato perché l’amore è fiducia nell’altro, ma per fidarsi degli altri dobbiamo in primo luogo fidarci di noi stessi”. Sergio Rubini con la consigliera Micaela Paparella In serata al teatro Petruzzelli Sergio Rubini ha ricevuto il Premio Bif&st Arte del cinema.