Prolessi suicidaria in Pierre Drieu La Rochelle in ‘’Le feu follet’’ (Fuoco fatuo). Cinema Cultura 12 Dicembre 202412 Dicembre 2024 di Antonio Rossiello L’opera cinematografica ‘’Fuoco fatuo’’ ( Le fou follet ) del francese Louis Malle del 1963, è stata tratta dall’omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, rappresentando la combinazione tra una regia classica e la trattazione di argomenti tabù; con la colonna sonora Gymnopédies di Erik Satie, prodotta da N.E.F. ( Nouvelles Editions du Film) Francia. Una produzione franco-italiana, durata 110 minuti in bianco e nero, genere drammatico. Il cast era formato dal protagonista Maurice Ronet (Alain Leroy), Jeanne Moreau (Eva), Lena Skerla (Lydia), Yvonne Clech (M.lle Farnoux), Jean- Paul Moulinot (dottor La Barbinais), Bernard Noel (Dubourg). Premio speciale Leone d’Argento – Gran Premio della giuria alla XXIII Mostra del Cinema di Venezia del 1963. Premio critica italiana per miglior film straniero dell’anno 1963. Nomination per l’Oscar per il miglior film straniero del 1964. Pierre Eugène Drieu La Rochelle Emozionante, disperato e lucido. L’analisi degli ultimi momenti di un suicidio annunciato sarà un tema ripreso dal regista Mario Martone nel film ‘’Morte di un matematico napoletano’’ del 1992. Il film, intimista ed pseudoermetico, racconta gli ultimi due giorni di vita di Alain, un borghese finito vaga disperato che, distrutto dall’alcool e da una vita in cui non si riconosce più, dopo l’avventura senza pensieri di una vita che ora, dopo i trenta anni, gli ha mostrato la sua vacuità, programma il proprio suicidio. L’azione del romanzo da cui è stato tratto il film si svolgeva alla fine degli anni trenta, mentre quella del regista è trasferita nella Parigi del 1963. Senso vivissimo dell’atmosfera e dei personaggi. Ronet, nato a Nizza il 13 aprile 1927, ha saputo identificarsi in modo straziante con l’infelice protagonista. Il soggetto del film Alain, trentenne borghese parigino, si risveglia all’alba in un alberghetto di Versailles, dopo aver trascorso la notte con Lydia, un’amica americana della moglie Dorothy da cui è separato. Lydia sta partendo per gli U.S.A., ma Alain non può accompagnarla all’aeroporto: deve rientrare alla casa di cura del Dr. La Barbinais dove sta terminando un trattamento di disintossicazione dall’alcool. Il medico ritiene che la cura è stata efficace e lo incoraggia ad avere un atteggiamento positivo verso la vita. Ma Alain è in piena depressione che esula dal vizio del bere, in cuor suo medita di farla finita. Assecondando il suggerimento del dr. La Barbinais, si concede un’ultima prova d’appello, il giorno dopo Alain esce dalla clinica e in un bistrot incontra due camionisti dai quali ottiene un passaggio per Parigi. Alain si dà ancora una possibilità, la ricerca di un motivo per andare avanti, un percorso che compie negli ultimi due intensi giorni, cercando nei ricordi, nelle vecchie amicizie che non ritrova, in uno stile di vita che non gli appartiene più, superato dal tempo e dal peso di un’esistenza ormai inadeguata. Alain sembra essere abbandonato dalla sua stessa vita, cerca di comunicare con un mondo che gli riserva solo disprezzo o compassione, cerca di comunicare con se stesso attraverso il mondo che invece lo rifiuta, che gli propone come unica alternativa un cambiamento impossibile. Inizia un percorso di ricerca dei vecchi amici con cui ha vissuto importanti esperienze della sua giovinezza. Prima cerca un amico al bar dell’Hotel Quai Voltaire, dove il barman e due cameriere lo salutano festosamente, ma non possono evitare di notarne il degrado fisico. Si reca a casa di Dubourg, il compagno degli anni più intensi, che ha due figlie, una moglie silenziosa e simpatica ed un’attività di ricercatore in Egittologia che lo appaga; Dubourg intuisce il travaglio di Alain, ma, quando questi gli espone la sua decisione estrema, lo prega di accettarsi così come è. Alain vaga per la città. In una galleria d’arte incontra Jeanne, una vecchia amica con cui condivide la critica verso la società borghese e con cui trascorre ore di fittizio sollievo. Jeanne lo porta ad una riunione di suoi amici intellettuali fumatori di droga: uno di questi litiga con Alain e l’incanto si rompe. Incontra altri vecchi amici, ex camerati della guerra di Algeria, che sono divenuti militanti dell’O.A.S.. Leroy non li condanna né simpatizza con loro: si accorge che il tempo è passato e che anche da loro non può ricevere conforto, li bolla come dei boys scouts avventurieri. La giornata si chiude con una cena a casa di altri amici, Cyrille e Solange Lavaux . Momenti di fraterna comprensione si alternano ad altri in cui prevale il cinismo e la vacuità dei discorsi dei commensali. Dopo essersi abbandonato ad uno sfogo lirico in cui esterna il suo insanabile disagio, Alain rientra in clinica. La mattina dopo chiede di non essere disturbato. Termina il romanzo di Francis Scott Fitzgerald che stava leggendo e si spara un colpo di pistola al cuore. Assai intensi i dialoghi-monologhi del protagonista e una Parigi in bianco e nero, fatta di scorci, di volti, di pioggia, di auto. Maurice Ronet e Jeanne Moreau in una scena del film Una storia di noia, di alienazione, di solitudine e paura che si conclude con un suicidio, unica soluzione. La sceneggiatura originale di Malle prevedeva il sottotitolo ’’Il suicidio’’, argomento presente in ‘’Soffio al cuore’’, precario riferimento al ’’Mito di Sisifo’’, il romanzo di Albert Camus incentrato sulle ripercussioni filosofiche dell’atto estremo, oggetto del tema filosofico del giovane Malle in occasione del Baccalaurèat. Luis Malle era nato a Thumeries in Francia il 30 ottobre 1932 in una famiglia dell’alta borghesia, discendente della nobiltà francese, la famiglia materna Bèghin si era arricchita grazie al commercio dello zucchero durante il periodo napoleonico ed aveva uno zuccherificio, mentre il padre ne era il direttore. Studiò all’Università Sorbona di Parigi scienze politiche senza terminarla, seguendo i corsi della Scuola Superiore di Cinema IDHEC di Parigi, divenendo cameraman. Collaborò nel 1956 con Jacques Cousteau, esploratore oceanografico sulla sua nave Calipso, e, secondo voci, collaboratore dei Servizi di Informazione francesi, partecipando ad alcune spedizioni come addetto alle riprese. Divenne fiancheggiatore della Nouvelle Vague, dirigendo i grandi attori francesi come Brigitte Bardot e Jean-Paul Belmondo. Morì il 23 novembre 1995 di leucemia a Beverly Hills in California. Nel film ‘’Feu Follet’’ c’è un elemento autobiografico del regista, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia della Francia del Nord, alla soglia dei 30 anni, dopo un lungo periodo trascorso in dissolutezze notturne, in compagnia di alcoolici e di incontri amorosi merceneri, era giunto ad interrogarsi, tramite il protagonista del film, sul senso di restare ‘’…immerso nell’adolescenza…una promessa e anche una menzogna…Ero io il bugiardo’’. Pur irrompendo nella vita quotidiana, come gli accenni alla guerra di Algeria o la processione dei volti dei passanti davanti al bar all’Odeon, che evoca un mal di vivere esistenzialista, la regia di Malle è rigorosamente classica ed autonoma verso i modelli narrativi della Nouvelle Vague, caratterizzati da fratture e discontinuità. Il suicidio finale, soggetto difficilmente trattato sugli schermi negli anni sessanta, è preventivato dall’inizio nelle intenzioni del regista e del suo soggetto cinematografico, con il protagonista, uno splendido Maurice Ronet, un dandy nella vita, come nel film, che armeggia con la sua pistola di ex-ufficiale mentre, nella sua camera della clinica per alcoolisti, lunghi piani sequenza raccontano, con oggetti e fotografie, della sua storia. Le conversazioni coi vecchi amici, i racconti delle follie giovanili, il commento di una compagnia di omosessuali non lasciano intravvedere altra soluzione a questo disperato viaggio nel passato. Francois Truffaut difese il film dalle accuse di falsità, a partire dalla sua insistenza su un’unica, disperata tonalità narrativa, scrivendo: ‘’…se Ronet fosse stato qualche volta aggressivo o odioso, la nostra adesione sarebbe stata più completa e il film, invece di essere semplicemente commovente, sarebbe stato realmente lacerante…Tutti i comici conoscono il riso per ripetizione, esiste anche il patetico per ripetizione; è il più interessante. Grazie a questo Louis Malle ha messo a segno il suo miglior film’’.( Truffaut, ‘’I film della mia vita’’, Saggi Marsilio, 1992). Malle fu un artista complesso, originale, eclettico, sostanzialmente mai inquadrabile all’interno di un movimento, di una corrente, di un qualsiasi percorso collettivo. Il suo essere un borghese si faceva fatica ad accettare, ma era anarchico e rivoluzionario, individualista. Malle subì l’ostracismo dei ‘’Cahiers du Cinemà’’, riuscendo a conservare la freschezza di uno sguardo curioso, attento ai cambiamenti, desideroso di sperimentare diversi generi, nuovi linguaggi, rimanendo fedele ad una sorta di classicità etica del fare cinema. La sensibilità del regista si rivela nei suoi film, viaggiatore curioso, innamorato delle tante realtà della vita e del mondo. L’amore per le donne e per il sesso come iniziazione, le commoventi contraddizioni dell’infanzia nella Francia occupata dai nazisti, i rapporti con gli attori ed il divismo, la sperimentazione linguistica, il fascino critico per gli Stati Uniti d’America, e per la Francia, la passione letteraria fino alla prolifica attività documentaria. A Marrakech Malle aveva maturato la volontà di fare il cinema: ‘’Non siamo altro che dei modesti cantastorie, che arrivano su una pubblica piazza e raccontano delle favole alla gente che si aduna intorno’’. Louis Malle Louis Malle Nell’autunno 1962 la vita privata di Malle era stata turbata da un evento drammatico, un amico si tolse la vita inaspettatamente, sconvolgendo Louis Malle che non si era accorto del tragico travaglio interiore dell’altro e per cui nessuno degli amici comuni aveva potuto far nulla per impedire il tragico evento. Malle lavorò sulle sue due bozze di sceneggiatura sul tema, senza convinzione. Il critico cinematografico di ‘’France-Observeur’’, Bernard Frank, gli suggerì la lettura di ‘’Fuoco fatuo’’ di Pierre Drieu La Rochelle, (1893-1945) collaborazionista critico dei tedeschi nazisti e del regime di Vichy, durante la seconda guerra mondiale, socialista nazionale e camerata. Malle fu conquistato dal testo di Drieu e decise di limitarsi ad un adattamento, in quanto la struttura e lo stile adottato da Drieu inscrivevano al loro interno i temi che il regista voleva sviluppare. Il romanzo era un camuffamento in forma di finzione letteraria di una esperienza parallela vissuta da Drieu. Nel 1924 Drieu aveva pubblicato la sua prima raccolta di racconti, ‘’Plainte contre inconnue’’, mentre praticava il gruppo dei surrealisti, divenendo amico dell’artista comunista Louis Aragon, cui aveva dedicato ‘’L’homme couvert de femmes’’ del 1925, nonché di Jacques Rigaut, il Gonzague personaggio principale di ‘’La Valise vide’’, uno dei racconti tratti da ‘’Plainte’’. L’idillio letterario e l’amicizia con i surrealisti finì nell’agosto 1926 con una lettera ad Aragon e ai suoi amici. Se nel 1917 Drieu era stato attratto dal comunismo, ora si mostrava favorevole ad un’Europa forte. Nel 1927 pubblicò due libri, ‘’La suite dans le idees’’ e ‘’Le jeune europèen’’cui fece seguito ‘’Gèneve ou Moscou’’ e ‘’Bleche’’, entrambi del 1928. Saggi in cui fu denunciata la decadenza materialista della democrazia, pur criticando la dottrina hitleriana in ‘’L’Europe contre les patries’’. In seguito al suicidio dell’amico e scrittore surrealista Rigaut, avvenuto il 5 novembre 1929, Drieu scrisse ‘’Adieu a Gonzague’’ e ‘’Le feu follet’’( Fuoco fatuo), stampato nel 1931, unico romanzo fortunato e best seller di Drieu, grazie alla sua seconda riscoperta e ritrovato successo negli anni sessanta, dovuti appunto alla magistrale trasposizione cinematografica operata dal regista fiancheggiatore esterno della Nouvelle Vague, con una tecnica di rappresentazione devitalizzata e demitologizzata della verità, Louis Malle. ‘’Le feu follet’’ è un breve romanzo di gran spessore emotivo e di grande riuscita letteraria, un romanzo – testimonianza ispirato a quella tragica fine, ma è anche l’affresco di un’epoca tormentata che ebbe in Drieu uno dei suoi più grandi cantori. Il protagonista del romanzo è Alain, il prodotto di una società in abbandono, alla deriva e al tempo stesso un uomo in rivolta, che rifiuta il mondo degradato, svilito e privo di valori ‘’eroici’’ che lo circonda. Lo scrittore francese analizza scientificamente, con spietatezza e sottigliezza di osservazione, gli ultimi giorni di un uomo che, già sconfitto dagli eventi e dalla droga, ha deciso di compiere l’unico gesto individuale ormai possibile per sfuggire alla menzogna dell’irrealtà quotidiana e per aderire alle cose. Un uomo lacerato, spento e conscio di essersi perduto, trascina la propria quotidianità, perduto negli eventi, nella droga. La sua delicatezza riflessiva e i suoi dinieghi alla sensibilità altrui tesa a redimerlo dal niente. Non vi è rivolta, ultimo atto di volontà è l’incontro con le cose, che spera di rinviare ad un altro incontro con qualcuno che si prenda cura di lui, ma lui stesso lo diserterà. Un romanzo autobiografico sugli ultimi giorni di vita di Jacques Rigaut, autoritratto per interpositum (il suo peso era il mio) di Drieu. La testimonianza del percorso che conduce alla morte il personaggio di Alain (cioè Rigaut) è l’occasione per fare un affresco d’insieme della società francese, parigina dell’alta borghesia. Drieu inserì molto di se stesso nel protagonista. La frenetica ricerca delle donne e del sesso, la tendenza a farsi mantenere da loro per vivere nella pigrizia e acquisire altre donne, l’osservazione analitica della società che lo circonda e dalla quale non riesce a ricavare nulla se non disgusto per la mancanza di ideali forti. Una triplice orazione funebre, affresco di epoca tormentata, dell’amico, di se stesso, della generazione sopravvissuta, della società francese parigina, dell’alta borghesia, con una pesante eredità di sofferenza, alla Prima Guerra Mondiale. Con Rigaut condivideva il culto di una morte volontaria ‘’Cercate, se ci riuscite, di fermare un uomo che viaggia col suicidio all’occhiello’’, ‘’Il mio libro di capezzale è un revolver ‘’. Rigaut si era ucciso a 30 anni con un colpo di pistola, dopo un’accurata toilette, in una stanza dove ogni cosa era stata messa in ordine. Nel romanzo c’è Alain, cioè Rigaut, di 30 anni bello e dannato, come nei romanzi di Francis Scott Fitzgerald, che per disintossicarsi soggiorna in clinica a Saint-Germain con qualità odiose delle case di salute e pensioni familiari. Non guarisce dalla droga e dall’alcool né dal male di vivere. Visita nella via crucis parigina con minuzia di analisi ed apparente distacco da referto scientifico, i vecchi amici e le amanti. E’ alla ricerca di altra cosa che gli faccia cambiare idea, ma non la trova. Alain è personaggio dallo stato ambiguo: personaggio reale (Rigaut), o proiezione di Drieu, poco di fantasia. I caratteri i comuni a Rigaut e Drieu, mantenuto da ricche ereditiere U.S.A., disprezza ed invidia amici integrati nella vita borghese, irritato da ottusa energia dei parvenus e ne subisce il fascino. Coltiva una lucida pericolosità tagliente e difficile da maneggiare come una lama senza impugnatura. Non è abbagliato dalla studiata vanità degli intellettuali alla moda, che lo deprimono, come le altre vittime del conformismo. Ha il culto del provocatore di inutile eleganza, rifiuta di adeguarsi, ama i bei gesti che non producono nulla. Versione nera del dandy di Baudelaire che Drieu aggiorna allo spaesamento di generazionale simpatia verso la Prima Guerra Mondiale. Alain è il dandismo inteso sulle orme del berlinese Walter Benjamin, coetaneo Drieu, come estremo atto di spreco e rifiuto. Ogni suo gesto è ribellione al mito del lavoro e della produttività. In questo il fascista rosso Drieu La Rochelle anticipava di cinquant’anni gli slogan della sinistra radicale e dell’Autonomia Operaia di qualche quinquennio fa: ‘’Siamo come la gramigna, non lavoreremo mai’’. Gioca col fuoco, non vuole aver nulla da perdere e rivendica la libertà di scegliere da solo il momento di uscire di scena. Alain è padrone nel vuoto dell’esistenza della sua pelle, suicidandosi. ‘’La vita non andava abbastanza in fretta per me, io l’accelleravo’’. Il suicidio è un paradossale ritorno alla realtà delle cose con belle pagine. Il suicidio era un atto volontario e libero; una forza estranea ed idiota aveva riacceso questo proposito violento e privo di qualsiasi pretesto, che forse era stato un’esplosione di vitalità, e lo spingeva per il monotono vicolo della malattia verso una morte tardiva. Avvertendo l’umiliante cambiamento di potere, si era attardato nel suo estremo rifugio. Immobile, temendo di fare il minimo gesto, sapendo che a quel gesto avrebbe corrisposto il suo decreto di morte. Le riflessioni sulla tossicodipendenza e sul significato del suicidio, la volontà di trasfigurare, che sintetizza un momento topico dell’esistenza del narratore, parigino. In una società ferita e lacerata dalla Prima Guerra Mondiale, incapace di risollevarsi dall’orrore e dal degrado, Alain, ribelle ed anticonformista rifiuta ogni convenzione e non trova più pace né significato né salvezza in niente. Alain è spleen e negazione del sistema. Inquietudine, isolamento e claustrofobia pura. Alain e Lydia sono una ‘’bella coppia in rovina’’. Lei, americana, sta partendo per Parigi, dopo tre giorni di permanenza, in cui Alain l’ha fissata intensamente, quasi cercando una rivelazione. Lydia vuole sposarlo, sta per ottenere il suo secondo divorzio, è decisa a tentare l’impresa. Alain attende il divorzio da Dorothy, non era abbastanza ricca per mantenerlo. La narrazione è decadente. Alain è definito il corpo di un fantasma; il volto è una bella maschera di cera. I seni di Lydia sono ‘’emblemi dimenticati’’; il suo viso sembra ‘’anonimo per via di un eccessivo pallore’’. La coppia è sul punto di separarsi: il dialogo frammentato, soggiogato dal silenzio. Alain guarda nel vuoto, senza vederla, è ipnotizzato dal niente. Sedotto dalla morte. Lydia se ne va. Alain è turbato dalla sua partenza ed estenuato dall’assenza di Dorothy. Come Gilles, protagonista de ‘’L’uomo pieno di donne’’, cerca una risposta alla sua sofferenza ed al dolore nella vita sentimentale: presente a differenza del suo antecedente edonista, una disperata autocoscienza della vacuità delle sue illusioni. Torna a pensare a sconfiggersi, ad annullarsi con la droga, a ritirarsi in sé stesso, calamitato dal torpore del niente. Si dissolve l’irritazione. L’alterità viene osservata, senza curiosità e senza livore. Un disprezzo impressionante nello sguardo di Alain, disprezzo per sé stesso e per la propria specie. Nella casa di salute del dr. La Barbinais, irride l’intento del medico di appellarsi alla sua volontà per combattere la dipendenza dalla droga: è il consiglio dato da un uomo che è figlio di una scienza che nega la volontà per esaltare i condizionamenti del sistema ‘’Una razza logorata dalla Civiltà’’, non può credere alla volontà, ‘’mito di un’altra epoca’’. Parla all’amico Dubourg. Alain si avvicina al suo precipizio, prima che la determinazione pretenda azioni e risoluzione del problema: il male si affronta e si estirpa, a costo di cancellare sé stessi. Dubourg e Alain discutono sulla natura della sua tossicodipendenza. Dirà che non si perde perché si droga, ma che si droga perché si perde; o perché è perduto. E’ una conversazione memorabile, che non risparmia cinismo e spietata franchezza, e manifesta una lucidità corrosiva. La disperazione di Alain annienta. Si parla di senso, significato, amore, amicizia, esistenza. Alain rifiuta il vivere, ha orrore della mediocrità e percepisce la sua vita come inevitabilmente mediocre, non riesce ad accettare le ripetizioni. E’ come nella scrittura: quello che si deve dire, va fatto una sola volta. Il resto è rimedio al niente. Una realtà gloriosa ed atroce che non conosce cura e via di scampo. Non voltarsi indietro: desiderare di morire, per aderire alle cose: ‘’Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle. Lo dimostro’’. Nel niente è tutto. Era la notte, era la droga. Notte e sonno. Una concatenazione di cause ed effetti lo tormentava, procurandogli inutili sofferenze; la droga gli faceva perdere le donne e gli amici, il denaro la droga. La vita era assistita da spettatore, triste nascondeva la propria pigrizia del vivere e i propri timori esistenziali. Alain ricerca disperatamente un motivo di sopravvivenza perché liberarsi dalla dipendenza della droga appare un pretesto che non l’obiettivo. Sa già che questo non sarà possibile, la lotta ha in sé un motivo di sconfitta ed un atto di ribellione estremo. L’ultima richiesta di aiuto alla moglie americana separata, Dorothy, è fatta perché questa non risponda all’appello, è volutamente ambigua ed anodina se paragonata alla situazione. La cena, l’ultima, in una ricca casa si trasforma nella rappresentazione del disagio sociale e morale di Alain. Esisto, sono tra di voi ma non mi vedete e non mi accettate perché sono diverso e non posso, non potrò mai essere come voi, sembra dire Alain. La visita all’amico Dubourg, compagno di vizio ora sposato ed avviato verso una tranquilla vita dedicata agli studi di egittologia, alla moglie insignificante e alla due figlie, presso cui, che si interessa amorevolmente a lui, non trova alcun conforto e vede solo la mediocrità di un’esistenza incentrata su inutili presunzioni come la scrittura. L’ultimo peregrinare per le vie di una Parigi deserta con un amico e poi la decisione. Vari elementi della sua scrittura (risarcire con l’opera il vuoto lasciato da una mancanza, la tendenza a proiettarsi in figure fuori di sé, l’ossessione della morte come atto risolutivo, che dà un senso della vita) concorrono nel fare di tale libro di concisione mortuaria (tombale da lapide o discorsi in memoria) un piccolo capolavoro. Furore introspettivo che è la cifra di Drieu narratore elegante, atto a spiarsi e tormentarsi fino all’agonia. Drieu eccentrico, ai margini dei movimenti: Dadaismo e surrealismo che seguì (Breton, Eluard, Aragon, Artaud, Bataille), erano teorie che affascinavano Drieu per decostruire e riformulare il reale in nome della surrealtà che coincide con l’inconscio (punto in cui alto e basso, vita e morte, cessano di esser percepiti in modo contraddittorio). Drieu non usò tecniche di avanguardia radicale. Non ruppe con la tradizione, ma restò dietro rispetto al punto di rottura, con l’oltranza dell’avanguardia letteraria, diversamente da Celine e Artaud, viceversa esprimeva un’opera / azione. L’hiltlerismo era deludente perchè debole, non associabile al superomismo e gradevole vigore, eccezione nel liberalismo tedesco, primi vagiti di un afflato rivoluzionario (‘’Una morte degna, del rivoluzionario e reazionario che sono’’). Il suo dandismo novecentesco con una sfumatura fascistizzante era una maschera, spendeva una fortuna in camicie, era spregiudicato. Non si faceva notare dalla massa ma dagli intenditori come lui, per una cravatta finissima, un colletto su misura, un abito da sartoria. La filosofia di Drieu era nell’autoannullamento volontario attraverso la solitudine e il suicidio. Un nihilismo o dadaismo portato all’eccesso che ebbe ripercussioni sulla sua estetica: a prima vista appariva vestito elegantemente, ma a forza, mostrandosi sguaiato. I suoi amici ricordarono la sua malinconia espressa attraverso le sue giacche di tweed inglesi e le scarpe che si faceva preparare su misura. Drieu non si considerava dandy, aveva il rimorso di non aver saputo incarnare un personaggio senza interpreti, quello del dandy, dell’uomo rigorosamente non conformista, che rifiuta le sciocchezze del momento, da qualsiasi parte provengano e professa con discrezione ma con fermezza una sacrilega indifferenza. Una via di mezzo tra Baudelaire e Rean, tra Remy de Gourmont e Mallarmè.Un naif dadaista, con intensa vita sociale e mondana. Rigaut era bello ed elegante scrisse pochi testi, dada anticonformista e provocatore. Vestiti e cravatte irreprensibili ed impeccabili che dimostrava l’esistenza dell’anima attraversola sua assenza, viaggiava con la valigia vuota, raffinatezza e cancellazione. Jacques Rigaut, un letterato con cui Drieu era entrato in polemica, aveva compiuto il gesto estremo del suicidio. Drieu si sentiva responsabile del suicidio di Rigaut, aveva narcotizzato il suo senso di colpa, ricordando in un romanzo la sua ultima giornata di vita con Rigaut, creando la vicenda parallela di Alain Leroy, protagonista di ‘’Fuoco fatuo’’. Il doppio smascheramento affascinò Malle che rinunciò alla stesura di un soggetto originale, sviluppando una sceneggiatura basata su questo meccanismo: usare il romanzo di Drieu come copertura per parlare della propria motivazione drammatica, mentre lo stesso Drieu lo aveva usato quale ‘’schermo’’ del suo travaglio legato al legame con Rigaut. Drieu si suicidò non per la sconfitta politica, ma per l’insopportabilità di una condizione vertiginosa di decadenza, di una domanda che lo soverchiava, come un avvicinarsi alla morte, vista in una dimensione non proprio cristiana, ma profondamente religiosa. In un mondo in cui non si sa essere fedeli neanche alla propria donna amata, a ciò che si ama, perché si èimpotenti, miseri, deboli. Il suo pessimismo ormai travalicava gli eventi, alla decadenza borghese e dell’uomo moderno non c’era rimedio, anche la sua ammirazione per Stalin ed i russi ed il comunismo scaturiva non dall’alternanza dell’adesione al fascismo ed al comunismo, ma dall’interrelazione tra le dueideologie intercambiabili. ‘’I comunisti sono sempre stati attratti dal fascismo, hanno sempre favorito il suo trionfo sulla democrazia. Il comunismo in Europa è un fratello maggiore del fascismo, un fratello meno fortunato’’, (4 marzo 1940). ‘’Il conservatorismo borghese ha corrotto il fascismo dall’interno. I marxisti avevano ragione: il fascismo in fondo non è stato che una difesa borghese. L’amara, cruenta consolazione di uomini come me consiste nel pensare che, senza il fascismo, la borghesia perirà. Adesso (e questo è vero da un anno) tutti i miei voti sono per il comunismo. Qualsiasi cosa purché la borghesia perisca’’ in ‘’Diario 1939-1945’’, 27 luglio 1943. Infatti ciò che nel passato prossimo e nel presente politico stiamo vivendo realizza tale vaticinio, quello che nel dopoguerra non era riuscito a fare l’asse costituzionale antifascista e di sinistra marxista verso i partiti neofascisti o presunti tali, riducendoli al oblio ed all’ombra di sé stessi, lo ha concretizzato in Europa la conservazione borghese capitalista, ancor più del suo nemico liberal-liberista. Questi ultimi hanno assorbito e appiattito i valori sociali ed innovativi di dei totalitarismi. E ancora, Drieu: ‘’Nell’Europa di domani, che sia fascista, comunista o entrambe le cose…lo spirito in piena decadenza, irrimediabilmente labile, ormai non può che produrre altro che deboli mostri’’. Parole profetiche. L’azione del romanzo copre l’arco di un giorno e di una notte e vi è grande intensità e tensione di vita proprio perché Alain ricerca disperatamente un motivo di sopravvivenza perché liberarsi dalla dipendenza della droga appare un pretesto non l’obiettivo. Sa già che questo non sarà possibile, la lotta ha in sé un motivo di sconfitta e un atto di ribellione estremo. L’ultima richiesta di aiuto alla moglie separata, Dorothy, è fatta perchè questa non risponda all’appello, è volutamente ambigua e anodina se paragonata alla situazione. Una ricerca affannosa del senso nella vita, che è la confessione di Drieu, che nel ’45 attuerà il suicidio. Alain si uccide, col disprezzo per il mondo, sapore nietzschiano del ‘’Così parlò Zarathustra’’. L’osservazione cruda e onesta di una società decrepita ed alla deriva, di un mondo degradato. Alain non allontana la morte dai propri pensieri, perchè così si sente più vivo e saggio spiandola attraverso le sensazioni del corpo e le fatalità del mondo esterno. Nella vita solo la passione è una cosa bella, e si esprime con l’omicidio degli altri e di sè stessi. Alain riprende in mano la sua libertà, aderendo alle cose. Rigaut aveva deciso la sua morte a 20 anni, attuandola con un freddo colpo al cuore, disteso su una coperta cerata sul letto per evitare di sporcare la stanza. Accuratamente vestito, con uno stile sobriamente dandy (come gli artisti Man Ray, Andrè Breton, Drieu). Jaques Rigaut Rigaut condusse la sua vita come fosse un’opera d’arte, dimostrò quanto la filosofia dadaista di Tzara e Ball fosse realistica ed intensamente artistica, stabilendo uno strabiliante feeling con la Morte, trattata in modo ironico e quasi gioioso. Il doppio mascheramento aveva affascinato Malle che aveva rinunciato alla stesura di un soggetto originale, sviluppando una sceneggiatura basata su questo meccanismo: usare il romanzo di Drieu come paravento per parlare della propria motivazione drammatica, mentre lo stesso Drieu lo aveva usato quale ‘’schermo’’ del proprio travaglio unito al legame con Jacques Rigaut. Secondo elemento fondamentale per la nascita e per il successo del film di Malle fu l’apporto di Maurice Ronet. L’attore, già diretto in ‘’L’Ascenseur pour l’echafaud’’ entrò in perfetta sintonia con il personaggio di Alain Leroy ed in un altrettanto intenso rapporto simbiotico con il regista del film. Malle lo aveva contattato a Madrid dove Ronet era impegnato in un film, nel proporgli la parte che l’attore aveva accettato con entusiasmo, gli aveva imposto di perdere 20 chili di peso. Il deperimento fisico di Ronet era spia della crisi interiore di Alain Leroy. Ronet era interessato al personaggio del protagonista, in quanto attraversava egli stesso delle frequenti crisi legate ai tentativi di disintossicarsi dall’alcoolismo, mentre esisteva una grande affinità spirituale ed una impressionante somiglianza fisica con Malle; che ritrovava nell’attore il meccanismo del doppio mimetismo che caratterizzava il romanzo di Drieu La Rochelle. Come il romanzo omonimo ‘’Le Feu follet’’ segue l’ultima giornata di vita di Alain Leroy, trentenne borghese parigino, rimasto adolescente. Ne attualizza il significato, trasportando l’ambientazione originaria degli anni ’30 nella Parigi coeva all’epoca della realizzazione del film di Malle. Alleggerisce alcuni particolari, Alain è alcolizzato e non drogato come nel romanzo di Drieu, introduce qualche situazione originale, l’incontro con il barman dell’Hotel Quai Voltaire, amplia la parte di Jeanne, l’amica della galleria d’arte. Malle costruisce un punto di vista. Alain è ripreso in maniera descrittiva e anche se il film si apre con una voce fuori campo che fa da ‘’liaison’’ con la dimensione letteraria del romanzo di Drieu, la rappresentazione nell’azione filmica viene costruita come vista ‘’dall’interno’’ del personaggio. Il suo malessere esistenziale viene reso cinematograficamente con un metodo caro a Bresson: riempiendo la scena, i gesti con gli oggetti, la ‘’grana’’ dell’esistenza e trasformando ogni gesto, ogni elemento di décor in significazione di un sentimento. Dall’ultima frase del romanzo di Drieu, proprio nell’attimo immediatamente precedente il gesto finale: ‘’…Una pistola, è solida, è d’acciaio. E’ una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose’’. Le cose, gli oggetti, il mondo esterno diventano per Malle elementi di costruzione del senso cinematografico, i segni esteriori con cui si costruisce il malessere interiore di Alain, la manifestazione della trappola di silenzio, di indifferenza, di peso che accompagnano il suo tentativo estremo di cercare un rapporto con le persone e con il proprio sistema di riferimenti. Malle offre al suo personaggio una occasione di riscatto, lo pedina e ne rappresenta e costruisce il disagio, spera in una soluzione diversa da quella enunciata all’interno del romanzo. Tre gli elementi specifici del linguaggio cinematografico. Sceglie la fotografia in bianco e nero di alto contrasto, in cui i toni scuri prevalgono. Dà un colore caratteristico alla rappresentazione, giustificata dal voler escludere ogni elemento di alleggerimento e di distrazione dalla centralità dei temi del film. Malle ha raccontato che le prime riprese furono fatte a colori, ma poi alcuni giornalieri girati in bianco e nero rivelarono la saturazione ed una asciuttezza di comunicazione efficaci. Un ruolo importante ha la colonna sonora di Erik Satie. La colonna sonora alterna con intelligenza e sensibilità momenti in cui la musica di Erik Satie diventa contrappunto efficace della meditazione interiore del personaggio interpretato da Ronet con momenti in cui, bressonianamente, il mondo esterno si addentra nella scena con i suoi rumori e quasi si frappone tra il personaggio e le sue azioni. La scena del primo tentativo di suicidio di Alain, interrotta dal rumore del traffico proveniente dalla strada dove una ‘’tranche de vie’’ ripresa nella sua banale quotidianità spinge la vicenda in una nuova direzione. Le grandi risorse del montaggio cinematografico, l’importante collaborazione iniziata con ‘’Le Feu follet’’ con Suzanne Baron che lo affiancherà per la parte centrale della sua filmografia. Il montaggio è utilizzato come elemento di concentrazione e di saturazione, rendendosi visibile in modo da eliminare i tempi ‘’ovvi’’ della narrazione, esaltando e rafforzando l’espressività della recitazione di Ronet e costruendone in maniera artificiale il punto di vista. Due esempi: la straordinaria serie di panoramiche attraverso cui Alain osserva i passanti dalla Terrasse del Cafè ‘’Flore’’, con il suo incedere grave, ripetitivo, ritmato che trasmette il senso di un’ ossessiva ricerca di una comunicazione che non è più possibile e che è costruito con la riproposizione proposta di immagini, situazioni, volti della vita di tutti i giorni in cui è conferita una distanza che è esperienza fisiologica dello spettatore. Maurice Ronet (Alain Leroy) Memorabile la dichiarazione di impotenza e di sofferenza fatta da Alain alla fine della cena a casa di Lavaux. Quando alla accorata enunciazione fatta dalle parole del protagonista si associa una rappresentazione accidentata e sincopata dello stato d’animo; un ripetersi di movimenti ‘’a passerella’’ in cui Ronet sembra incespicare e scendere dallo schermo nelle braccia dello spettatore, in cui la produzione del senso si trasforma in esperienza fisiologica dallo spettatore. Un magistrale utilizzo del linguaggio cinematografico. Il film, oltre agli elementi di costruzione della rappresentazione e alle conseguenti scelte nella sceneggiatura e regia, si concentra sulla ricerca di un punto di vista che diventi punto di equilibrio tra la propria motivazione drammatica e le esigenze della trasposizione letteraria. Caratteristica di Malle è quella di non voler dare giudizi espliciti sui personaggi, ma voler lasciar loro una ‘’possibilità ulteriore’’. Lo sguardo di Malle sul dramma di Alain è più neutro di quello di Drieu. Le scelte di sceneggiatura e di regia, Malle si concentra sulla ricerca di un punto di vista che diventa punto di equilibrio tra la propria motivazione drammatica e le esigenze della trasposizione letteraria. Malle lascia trasparire la speranza di una fine diversa. Nelle scene con Jeanne emerge uno sguardo distaccato della vicenda, con uno spirito documentaristico del regista; una visione descrittiva che assume un ruolo simile a quello del cinema di Bresson, il cui influsso come in ‘’Ascenseur pour l’echafaud’’ è tangibile in ogni momento del farsi discorso cinematografico. Ritmi lenti, primi piani sottolineati e resi opachi da una macchina fredda e distaccata. Un livello in seguito mai raggiunto da Malle. ‘’Fuoco fatuo’’ è opera alta, di felice osmosi tra l’esperienza personale di Malle, l’analisi dei temi profondi della sua psicologia, la ricerca di un rapporto critico con la sua realtà borghese e la gioia di fare cinema di qualità, brusca virata e cambio repentino di registro. Calibrato, con tonalità ambigua ma di intensità drammatica, mette in scena con acribia eccessiva, una ricognizione minuziosa delle mosse, dei gesti e della fredda determinazione che precedono l’atto finale. E’ un film di struggente coerenza stilistica, che non molla il suo tema, senza caricarlo di compiacimento letterario estranei alla natura del protagonista. La tecnica della Nouvelle Vague rivolta ad una rappresentazione devitalizzata e demitologizzata della realtà, sembra fatta apposta per descrivere il mondo come appare a chi non trova motivi per vivere. Ad Alain gli aspetti della realtà appaiono intercambiabili e assurdi; la macchina da presa con la sua ineccepibile serie di inquadrature ossessionanti e gratuite ci restituisce in maniera convincente il delirio di oggettività del suicida. La prima parte del film, in cui Malle è stato costretto a caratterizzare realisticamente il personaggio, il suo ambiente e il suo destino, è la migliore. Nella seconda, il delirio di Alain è ossessivo e la poca intercambiabilità della realtà vista dal suicida rischia di diventare intercambiabilità gratuita delle immagini. Il film ha la sua nota dolente e sincera che non si interrompe mai ed accompagna in sordina tutta l’azione. Il film gioca allo scoperto, senza lenocinii, è vecchio ed anacronistico da apparire ‘’retrodatato’’, ma significativo di uno stato di crisi, di incertezza, di chiusura ideologica e civile di una generazione di intellettuali francesi, in una circostanza storico-politica definita nella vita della nazione. Il primo Malle di ‘’Feu follet’’ è l’impossibilità di amare e di essere amati, più che sul suicidio: ‘’segregato’’ per propria scelta, e non per capriccio del destino o per negare una Storia che non lo tocca ed a cui è indifferente, nella camera di una clinica per nevrotici e pervertiti di lusso, circondato da immagini perdute di donne bellissime e protettive, ritagli di giornale su Marilyn e deliziosi oggetti di pessimo gusto, il gentile Alain ne esce per avere la conferma alle sue convinzioni, tutte sentimentali e irriflesse, sulla vanità di vivere in un mondo in cui l’amore non può esistere e l’erotismo è una forma di alienazione, mistificata ed ingannevole di altre. La trasposizione di Malle è colta, commossa senza ricorsi al pietismo e senza essere letteraria, è tenera senza indulgenze. La fatica di adattare la vicenda ed il personaggio, non attuali, al 1963, la vicina guerra d’Algeria. Il rapporto tra Alain e la realtà fa intravvedere la riposta moralità di un’opera e di un suo autore; in una visione disperata, ma non di un mondo senza valori, ma di un uomo che non riesce, per una malformazione a scoprirli, pur sentendone la presenza e sapendo che quei valori rendono degna la vita di un uomo. L’insicurezza e la mediocrità del tempo di Malle, nel ritratto del protagonista, elaborazione che attualizza l’esperienza di Alain, in un a Francia gaullista e conservatrice, chiamando in causa altri temi dell’angoscia del suo tempo, dall’incomunicabilità alla noia, il tedium vitae, decadente e paradannunziano, di Drieu La Rochelle ed i viaggi in fondo alla notte di Scott Fitzgerald o le nevrosi disperate ed impotenti di Marilyn Monroe. Il soggetto è eccitante dal libro al progetto al film, l’interesse, la ricchezza, le possibilità si conservano. Coincidenti sono la stanchezza di Drieu, la sua angoscia per le sue creazioni, per la sua vita, raggiunge quella di Malle, incerto ed insoddisfatto. Alain si ritrova in Ronet. Il film è fatto sul rapporto intimo e inquietante fra un’opera letteraria vitale, con lo stesso dato di vita che tenta di esprimersi. La differenza di mezzi dal romanzo al film sia il suo clima neutro, feltrato, morbido, a cui conveniva la neutralità e la prudenza della messa in scena di Malle, accompagnamento capace di seguire i minimi fremiti ed i soffi di vita guizzano intorno a Ronet. L’inquadratura del viso di Ronet dice tutto dell’uomo e delle sue debolezze, la macchina da presa attaccata al suo oggetto. Nella camera della clinica, Alain si trastulla con piccole cose, il Fuoco fatuo, . tra Alain e Ronet c’è identità di destino, di caratteri, non corrispondenza di tentazioni superflue, d’inerzia; un rapporto para-mistico, d’incarnazione ed esorcismo. Alain recita sé stesso, la sua morte e la sua vita, per liberarsene; come Ronet recita Alain per uscirne. L’ossessione della morte affascina l’uomo ed i personaggi del film, burattini che confermano l’attenzione del regista su Alain-Ronet e viceversa. Malle non può filmare ciò che non sente, ma pensa, in effetti, la vita stessa di Alain, come la sua morte, che delle apparenze. La vita intera è messa dal regista e da Ronet nelle cose da nulla, senza dialoghi, gesti e sguardi voluti, perché erano due uomini per cui era difficile vivere, portavano in loro stessi le lacerazioni del mondo. Malle ha esorcizzato la vita, come se suicidasse il suo personaggio per rinunciare ad ogni tentazione di impietosirsi, di adattarsi sulla propria giovinezza. Secondo elemento fondamentale per il successo dell’opera cinematografica di Malle fu lo straordinario apporto di Maurice Ronet, che era stato diretto nel film ‘’Ascenseur pour l’echafaude’’ (1957), che entrò in perfetta sintonia col personaggio di Alain Leroy, ed in un intenso rapporto simbiotico col regista del lungometraggio. L’ultima frase di Drieu nell’attimo precedente il gesto finale: ‘’…Una pistola, è solida, è d’acciaio. E’ una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose’’. Cose, oggetti e mondo esterno, vivono per Malle come elementi di costruzione del senso cinematografico, i segni esteriori con cui si costruisce il malessere interiore di Leroy, la manifestazione della trappola del silenzio, l’indifferenza, di peso che accompagnò il tentativo estremo di cercare un rapporto con le persone e con il proprio sistema di riferimenti. Sembra quasi riuscire nel tentativo di guarire dall’alcoolismo e dal male oscuro della depressione, ma l’indifferenza di amici e conoscenti incontrati durante una giornata fatidica a Parigi lo persuade che è tutto inutile oltre che troppo tardi. Il male di vivere: ‘’Mi uccido perché i nostri rapporti non erano giusti…Lascerò su di voi una macchia indelebile’’ lascia scritto su un biglietto.’’L’idea del suicidio ossessiona molte più persone di quanto si creda, un mio amico si era ucciso in circostanze analoghe; il film abborda il problema del suicidio dal punto di vista esistenziale’’, (Louis Malle). Malle offre al personaggio un’occasione di riscatto lo pedina e ne rappresenta e ne costruisce il disagio, confida in una soluzione diversa da quella che è fatalmente enunciata nel testo. Malle usa tre elementi del linguaggio cinematografico: la fotografia in bianco e nero di alto contrasto, in cui i toni scuri hanno la prevalenza. Tale scelta dà colore caratteristico alla rappresentazione, è giustificata dal voler escludere ogni elemento di alleggerimento e di distrazione dalla centralità dei temi del film. Malle fece le prime riprese a colori, ma alcuni giornalieri girati in bianconero rivelarono una saturazione ed una asciuttezza di comunicazione più efficaci. Contiguo ma estraneo alla Nouvelle Vague (1956-1968), Malle è stato considerato da alcuni critici un regista inutile, superficiale e vacuo, privo di spessore, profondità e slanci passionali, un accademico, un manierista. Per altri, invece, fu un autore classico, ebbe una sofisticata cifra stilistica e capacità di perseguire alti valori formali. ‘’E’ solo quando la memoria viene filtrata dall’immaginazione, che i films arrivano realmente nel profondo dell’anima’’, Malle. Alain si dà ancora una possibilità, la ricerca di un motivo per andare avanti, un percorso di due giorni, cercando nei ricordi, nelle vecchie amicizie che non ritrova, in uno stile di vita che non gli appartiene più, superato dal tempo e dal peso di un’esistenza inadeguata. Alain è abbandonato dalla sua stessa vita, cerca di comunicare con un mondo che gli riserva disprezzo o compassione, cerca ricomunicare con sè stesso attraverso il mondo che lo rifiuta, che gli propone come unica alternativa un cambiamento impossibile. Assistiamo, identificandoci con il protagonista, alla lenta decomposizione di un uomo-ombra che, guarito solo in apparenza dal vizio dell’alcool ma non dal male di non riuscire a maturare, errabonda per un giorno da un incontro deludente all’altro, alla ricerca di uno stimolo per non uccidersi. Oltre ad essere un bel film ed un capolavoro del cinema mondiale, ‘’Le feu follet’’, fa parte di quelle rare opere esistenziali, sconvolgenti e necessarie che ci aiutano a capire dal di dentro il male di vivere; sarebbe piaciuto all’anima sensibile del suicida Cesare Pavese, che aveva scritto ‘’Il mestiere di vivere’’, pur avendo militato in campo opposto nell’antifascismo.