25 novembre: un racconto per la Giornata contro la Violenza sulle Donne Racconto Violenza di genere 25 Novembre 202427 Novembre 2024 di Piero Fabris “Sagome Azzurre con scarpetta rossa” dipinto di Piero Fabris Il lungo cammino verso la consapevolezza Un racconto di Piero Fabris All’inizio è stato così. Prima dell’alba, quando era ancor buio, mi infagottavo e andavo a prendere il treno per un paese lontano dal mio, dove nessuno mi conosceva. Portavo con me una borsa anonima nella quale mimetizzavo i miei sensi di colpa. Ma ero stanca di subire violenze domestiche. Ero stanca di sentirmi dire che sono niente dall’uomo che avevo sposato. Per anni ho vissuto il mio essere nata femmina come una disgrazia e perciò non potevo salire sul palco pubblico per prendere parola. Cosa avrebbero detto i compaesani se mi avessero vista andare in caserma a denunciare colui che in paese è considerato il migliore? Un giorno decisi di prendere in mano la mia vita e con un velo nero sul capo misi i primi passi nella notte. Era, in vero, uno scialle nero, ma senza frange! Non volevo attaccar bottone. Volevo essere rispettata. Essere libera non vuol dire essere una baldracca come si è facile additare chi ama la libertà e desidera rispetto. Il mio percorso di rinascita l’ho dovuto tenere nascosto, con passi felpati come se fossi una ladra. Ho dovuto combattere con me stessa. Mi sentivo un’ingrata. Quel giorno chiusi la porta di casa senza far rumore, senza voltarmi indietro mi incamminai velocemente con un senso di fragilità e di solitudine che alimentava le mie paure. Il lungo corso che attraversa il paese sembrava interminabile. Le foglie rossastre erano appese ai rami dei grandi alberi del vialone, sembravano preghiere della natura che sventolano col vento malinconico di fine autunno. Le chiome rosso fuoco facevano pendant con le panchine dipinte di rosso nella piazza del paese. Il cielo plumbeo si scioglieva in goccioloni. Con passo svelto evitavo i rigagnoli, le raffiche dai soffi gelidi e le facciate delle case con le finestre spente. Lasciai la pioggia alle spalle salendo su quel treno. Presi posto in uno scompartimento dove due ragazze con lo zaino tra le mani parlavano tra di loro con lo stesso entusiasmo con il quale vivevo io alla loro età. Presi posto vicino al finestrino. Avevo lasciato la pioggia alle spalle. Vedevo i goccioloni schiacciarsi sul vetro ma non toccarmi, non venirmi contro per annegare l’anima. All’interno del vagone mi sentivo protetta, finalmente avevo deciso di prendere in mano la mia vita e di uscire da quel bozzolo che alimentava ansia e i sensi di colpa verso un uomo che mi garantiva un tetto sulla testa. Il treno scivolava sui binari e per la prima volta sentivo di aver fatto qualcosa per me, per il mio essere Donna non un oggetto e mi lasciai cullare dai vagoni senza il timore di essere inadeguata. Avevo capito che chiedere aiuto, non vuol dire perdere la dignità, ma rivestirsi di luce. Foto di Daniela Ciriello tratta dal progetto fotografico DONNA IN O Mia madre, le mie cugine alle quali avevo accennato delle sue violenze psicologiche e fisiche mi avevano sconsigliato di denunciarlo. Che fine farai? Dove andrai? Non pensi ai tuoi figli? Sei un’egoista! Queste domande ed esclamazioni erano sale sulle cicatrici interiori. Avevo la sensazione che per loro subire fosse normale. Già, appassivo in un nido di incomprensione. Ero tentata di tornare indietro, prima che mio marito si accorgesse che non ero in casa e che le lenzuola del letto erano fredde. Mi sembrò di vedere riflessa sul finestrino l’immagine di mio marito con gli occhi iniettati di sangue, imbestialito dall’idea che non eravamo più in casa la bella famiglia. Sbarrai gli occhi e cercai di distrarmi. Cominciai ad ascoltare le due studentesse mentre parlavano dei loro fidanzatini. Sarei voluta intervenire, ma a quale titolo? Mi sentivo inadeguata. Mi nascondevo in abiti oscuri. Avrei voluto dir loro: State attente, mentre orgogliose, si raccontavano l’un l’atra dei loro fidanzatini. “Lui mi ha detto tu sei mia, soltanto mia. Pensa che mi controlla persino il cellulare e lo fa, perché ci tiene a me!”. La ragazzina sollevò una manica perché l’altra potesse ammirare le cinque dita impresse sul polso. Anche lei come me si sentiva finalmente importante per qualcuno? Quel qualcuno che la possedeva? Ripensai alla mia fragilità di adolescente che vede nello specchio solo i propri difetti e non riesce a scrollarsi di dosso le ingiurie dei coetanei. Quante battute pungenti mi facevano sentire inadeguata, una perdente! Ero convinta di essere una foglia morta che il vento fa ruzzolare sulla piazza del paese. Certi ricordi, certe parole sono come sassi lanciati sui vetri dei finestrini. La ragazzina continuava a parlare. Diceva di sua madre che riceveva schiaffoni dal padre, schiaffoni che la facevano trasecolare. Diceva che suo padre era forte, ma confondeva l’essere forti con l’essere violenti e allora, tra me e me pensavo che bisognerebbe educare all’affettività, che bisognerebbe aiutare le nuove generazioni alla consapevolezza, al discernimento. L’amica, per non essere da meno, infilò una mano nella tasca del giaccone ne tirò fuori il cellulare con la bella cover, si ripiegò sul display e poi volgendosi all’amica le disse: “Il mio ragazzo mi fa toccare le stelle. Mi seduce ogni volta con poesie meravigliose”. Sollevandosi, tese il braccio col cellulare e glielo mise davanti agli occhi, perché potesse leggere le belle frasi ritagliate qua e là. Per un attimo nello scompartimento regnò il silenzio. Si sentiva soltanto il rumore, il rumore del treno che scivola sui binari. Pensai alla forza delle parole! Mi venne in mente la “signora riservata” come l’avevamo soprannominata tutti, quella che era stata uccisa dall’uomo che diceva d’amarla alla follia, che le inviava pagine e pagine dolcissime. Quello che la inondava di messaggi continuamente nonostante poi si fossero separati. Nessuno, in paese, sospettava che dentro le quattro mura della casa di zucchero ci fossero conflitti imbavagliati. Foto di Daniela Ciriello tratta dal progetto fotografico DONNA IN O Lei, sempre col sorriso stampato sul viso celava le violenze quotidiane di un uomo che la faceva sentire la causa di ogni suo fallimento. Le intimava di stare zitta, perché lei non capiva niente. Negli ultimi tempi le liti si erano fatte più rumorose, ma tutti in paese avevamo preferito chiudere le finestre, abbassare le saracinesche. Mi chiedo esiste la comunità? La separazione, dicevano in tanti, non era stata accettata da lui che rivendicava la proprietà della bella Miss Riservatezza. Nessuno avrebbe mai immaginato che quel tale tanto gentile e ossequioso, un giorno le avrebbe sferrato un fendente. La violenza ci corre accanto e troppe volte non ce ne rendiamo conto, pensiamo che siano tutte storie lontane. Sbirciai il femminicida da dietro le tende di casa, lo vidi con le braccia conserte, gli occhi nel vuoto, la canottiera sporca di sangue consegnarsi alle forze dell’ordine. Ebbi per un attimo persino pietà per quell’uomo, per la sua vita distrutta. Fu un attimo di debolezza. Pensai che bisognerebbe pensare a centri d’Ascolto per uomini! Ma la violenza non va mai giustificata! E fu quella esclamazione la molla che mi spinse ad affrontare le paure, forse fu in quell’attimo che decisi di comporre il 1522 e cercare aiuto in un centro antiviolenza lontano dal paese, un centro protetto, un centro d’Ascolto dove gente competente potesse indicarmi la via della rinascita. Non so usare le parole, non sapevo che fare. Prima di scendere dal treno, tirai fuori dalla mia borsa di lana grigia due opuscoli informativi e li diedi loro, alle ragazze felici Non chiedetemi se fu utile, nel mio piccolo con quel gesto, volevo gettare un seme per la consapevolezza. Chi disse: La cultura non è ricordare tutto a memoria ma sapere dove cercare le informazioni? Non mi sono mai improvvisata assistente sociale, mai psicologa, ma sento fortemente il bisogno del palpito umano. 25 novembre 2024
Grazie per aver affrontato con così tanta empatia e rispetto un argomento così complesso. Questo racconto tocca il cuore e invita a una riflessione necessaria! Rispondi
Oggi un ergastolo comminato e uno richiesto per gli assassini delle due Giulie. Ma arriviamo tardi, troppo tardi per loro. Grazie Piero per questo invito a agire prima per salvare vite e non piangere sulla loro morte Rispondi
Non è solo un racconto, ma un messaggio comunicativo. Un ’esperienza che tocca il lettore, lasciandolo con una consapevolezza nuova e la speranza che, attraverso gesti piccoli ma significativi, si possa costruire una società più giusta . Rispondi