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Intervista di Cinzia Santoro a Elena Sorba scrittrice di “Back to mum cammino fino a voi”

Di Cinzia Santoro

Back to mum, cammino fino a voi.
Intervista a Elena Sorba mamma coraggiosa e vittima si un sistema giudiziario misogino.

“Ci sono cose che non si pensano, che semplicemente succedono, o forse sarebbe meglio dire che devono succedere.
Lo scrittore Francisco Contrera lo definisce la chiamata del pellegrino, c’è un momento della vita in cui si lascia tutto e tutti e si parte… si può solo partire.
Ecco il cammino nel mio caso è successo”. Inizia con queste parole la commovente intervista a Elena Sorba, donna colta, professionista realizzata e madre di due meravigliosi bimbi. Potrebbe essere il racconto di una storia di famiglia felice invece è il diario intimo e struggente del dolore quotidiano che devasta una madre amorevole a cui sono stati strappati i figli, perché ha avuto il coraggio di denunciare l’ex compagno per le violenze subite dai piccoli.

Back to mum

Come nasce il cammino di Santiago?
“Mi spiego meglio, continua Elena.  Sognavo di fare il cammino da oltre vent’anni ma non c’era mai stata l’occasione e poi verso giugno di quest’anno  un mio amico mi ha parlato del suo cammino di Santiago, in quel momento ho capito: quest’estate io avrei fatto il cammino come protesta pacifica per i miei bambini portati via ingiustamente.  E poi tutto ha iniziato a fluire… come sa fluire la vita quando va nel verso giusto. Una mia amica psicologa mi ha suggerito di scrivere un blog, i miei avvocati mi hanno detto di scriverlo in mio nome, un’altra amica mi ha suggerito il titolo, Back to Mum, e a una amica scrittrice è venuto in mente il sottotitolo, cammino fino a voi. Nel giro di un mese ho creato il blog (e io non sono un’esperta informatica ma mi sono messa a studiare e ce l’ho fatta), ho camminato un centinaio di chilometri con le scarpe nuove per testarle e per esercitarmi, ho comprato l’attrezzatura e sono partita. Per una delle avventure più belle della mia vita. Per il cammino di cui, senza saperlo, avevo bisogno in quel momento. Un cammino fatto di passi e di scrittura… perché camminando io scrivevo, e raccontando il dolore disumano della mia vita, lasciavo andare il passato che mischiandosi alle lacrime faceva posto al presente. I primi giorni sono infatti stati giorni di lacrime, per tutti, non solo per me. Dicono proprio così: le prime tappe del cammino servono per lasciare andare. Ma poi arriva il momento presente, il concentrarsi su quello che sta succedendo, e la vita si trasforma e si torna a ringraziare per tutti i doni che ci ha fatto: il colore del grano, la bellezza delle nuvole, le nostre gambe che camminano, l’acqua che ci rinfresca, le anime belle che si incontrano sul cammino, la voce del vento.
Quindi alla domanda perché fare il cammino di Santiago, io non so rispondere. E’ il cammino che ha scelto a me, io ho solo seguito.

Elena cosa prova una mamma a cui strappano i figli per portarli in casa famiglia?
Questa domanda apre la porta su un mondo di dolore in cui non vorrei più entrare. Dopo un trauma così grande si sopravvive infatti grazie all’amnesia volontaria, proprio come Jorge Semprun quando è tornato dall’olocausto. Però prima di cercare di dimenticare tutto ho scritto questi ricordi, perché non si perdessero nelle lacrime ma ne rimanesse traccia. E una volta scritti mi sono promessa che potevo toglierli dalla mia mente, per sempre.
I giorni dopo il tre novembre il dolore era così grande che l’unico modo per alzarmi da letto era mettermi a fare cose concrete. E così per le prime settimane mi sono messa a carteggiare e dipingere le porte. Se no sarei stata a letto a piangere. Impegnarmi in questa attività molto fisica mi ha aiutata a non pensare e a superare quel momento di dolore infinito. Tempo dopo ho letto questa poesia anonima:
“Nonna, come si affronta il dolore?”
“Con le mani, tesoro. 
Se lo fai con la mente il dolore invece di ammorbidirsi, s’indurisce ancora di più.”
“Con le mani nonna?”
“Si. Le nostre mani sono le antenne della nostra anima. 
Se le fai muovere cucendo, cucinando, dipingendo, suonando o sprofondandole nella terra invii segnali di cura alla parte più profonda di te. 
E la tua anima si rasserena perché le stai dando attenzione. 
Così non ha più bisogno di inviarti dolore per farsi notare.”
“Davvero le mani sono così importanti?”
“Si, bambina mia. 
Pensa ai neonati: loro iniziano a conoscere il mondo grazie al tocco delle loro manine. 
Se guardi le mani dei vecchi ti parlano della loro vita più di qualsiasi altra parte del corpo. 
Tutto ciò che è fatto a mano si dice che è fatto con il cuore. Perché è davvero così: mani e cuore sono connessi. 
I massaggiatori lo sanno bene: quando toccano il corpo di un’altra persona con le loro mani creano una connessione profonda. 
E’ proprio da questa connessione che arriva la guarigione.”
“Le mie mani nonna… da quanto tempo non le uso così!”
“Muovile tesoro mio, inizia a creare con loro e tutto dentro di te si muoverà. 
Il dolore non passerà. 
Ma si trasformerà nel più bel capolavoro. 
E non farà più male. 
Perché sarai riuscita a ricamarne l’essenza.”
È esattamente quello che stavo facendo! Lasciare fare al mio corpo, alle mie mani, quello che la testa e il cuore non erano in grado di fare: sopravvivere a un dolore così grande. 

Back to mum

Cosa è accaduto il tre novembre 2021?
Il tre novembre ho accompagnato i miei due bambini alla casa famiglia, nel provvedimento c’era scritto che sarebbe intervenuta la forza pubblica se non li accompagnavo e non volevo che subissero anche questo trauma. Mi sono ispirata al film La vita è bella, li ho preparati ad affrontare questo distacco come se fosse un’avventura. Per non farli soffrire.
Proprio in quei giorni avevamo guardato un cartone dove si parlava della seconda guerra mondiale. I genitori di Londra dovevano consegnare i bambini alle famiglie che vivevano in campagna per cercare di salvare loro la vita dai bombardamenti. Ho spiegato che l’unico modo che aveva la mamma per proteggerli era farli vivere per un po’ in un’altra casa. La mia piccolina piangeva tutte le notti, non riusciva a dormire, mi diceva che voleva rimanere con me. Io buttavo indietro le mie lacrime, il mio pianto infinito e le dicevo che era l’unico modo che avevo per proteggerli, che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe stata una vacanza insieme ad altri bambini. Ho cercato di prepararli al meglio. Li ho accompagnati, per non farli soffrire. Io e i nonni abbiamo preso il tram per portarli lontano da noi… e ancora oggi ogni volta che passo lungo quel percorso mi arrivano dei flash di quell’ultimo viaggio e una coltellata di dolore. Dopo averli lasciati però ho respirato. I miei bimbi non erano più in pericolo, non mi avrebbero più raccontato quelle cose che io e la mia famiglia abbiamo dovuto ascoltare per tre anni, chiedendo aiuto e protezione senza mai riceverla. Erano salvi.
Ma per salvarli ho dovuto perderli.

E’ questa l’unica possibilità che dà la giustizia a una mamma che cerca di proteggere i suoi bimbi?
Nessuno li ha protetti dopo tre anni di denunce, segnalazioni, perizie di neuropsichiatre, referti del pronto soccorso.
Ho anche spostato un mobile in casa, cosa c’entra ora il mobile vi chiederete… era un mobile che non mi piaceva da anni ma la mia mente era così impegnata a sopravvivere al dolore di non poter proteggere i miei figli che non ero neanche riuscita a spostare un mobile.
Quindi sì, devo ammetterlo, nel momento che per tutte le mamme è il momento di dolore assoluto, il momento in cui ti staccano il cuore, io ho respirato.
Avevo messo il mio cuore al sicuro (per lo meno così pensavo). Con un ultimo estremo sacrificio.

Per essere al sicuro devono perdere anche la mamma, non hanno già sofferto abbastanza? Quanti traumi per questi bambini?
Per oggi basta, non riesco a raccontare altro.
Vi lascio con una poesia scritta proprio in quei giorni:

Voi eravate i miei sogni 
E io danzavo l’azzurro
Poi è arrivata la realtà 
Dura come un tronco
La ballerina ora danza 
Ma piangerebbe
E l’amore e la gioia 
Sono caduti giù 
Come in una spirale
Non scordate la piccolina mia

La voce di Elena s’ incrina, sta piangendo. È la voce del dolore, della tragedia, del cuore che implode. Restiamo in silenzio.

Se potesse tornare indietro denuncerebbe ancora?
Una domanda che mi sono posta molte volte. La risposta è sì. Se guardo indietro era l’unica possibilità che avevo, per me e per i miei bimbi. Quindi, io non mi pento: io ho fatto quello che dovevo!
Spero che un giorno, anche la giustizia torni a potersi chiamare Giustizia, con la G maiuscola, e torni a tutelare le vittime invece di accanirsi contro di loro come è successo a me e ai miei bambini e a tante altre mamme. 

Cosa vuole dire alle donne che vivono la violenza intrafamiliare quotidiana?
Nessuno potrà decidere per noi il cambiamento che vogliamo attuare nella nostra vita. Mi avevano detto mille volte che dovevo finire con quella storia, ma se la voce viene da fuori, non da dentro di noi, non serve, se non scatta quel click interiore, quel momento in cui si decide che è arrivato il momento di dire basta, perché sia un basta che valga per sempre deve partire da dentro. E io ringrazio perché anche dentro di me a un certo punto è scattato e ho trovato il coraggio di cambiare.

“Meglio morire una volta sola che morire lentamente ogni giorno”
Era paradossalmente più semplice. Nessuno li ha protetti dopo tre anni di denunce, segnalazioni, perizie di neuropsichiatre, referti del pronto soccorso. Rimanere in una situazione di violenza piuttosto che uscirne, morire lentamente ogni giorno piuttosto che prendere la decisione di cambiare. Lo spiega molto bene la teoria della rana bollita. Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce semplicemente morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. Per uscire da una situazione di violenza ci vogliono forza e coraggio, e in genere le vittime sono così indebolite dopo anni di violenza che non hanno più queste qualità per cui è più semplice rimanere sperando che prima o poi lui cambi, che sia stata l’ultima volta, che non succederà più perché l’ha promesso di nuovo.
Io non faccio eccezione, anche per me è stato veramente difficile e in questo momento di cortocircuito della giustizia italiana mi hanno pure portato via i bambini perché ho denunciato. Anche se ora non tutto è risolto, penso che anche io ce l’ho fatta e, nonostante tutte le difficoltà che sto affrontando, posso dire di essere fiera di me e lo sarò per sempre! Ho una seconda vita e ringrazio per questo.
Spero che il momento di dire basta arrivi anche per le altre vittime di violenza, e che anche loro possano vivere la loro seconda vita.

Back to me

I suoi bambini cosa le chiedono durante gli incontri mensili? Siete liberi di vivervi? O gli incontri sono “protetti”?
Per un mese e mezzo non me li hanno fatti né vedere, né sentire.
Cito a questo proposito Michela Nacca di Maison Antigone che ne parla come di una cura consistente in un vera e propria TORTURA, ossia nello sradicamento materno, tramite ablazione del minore dalla madre considerata alienante, ostativa e simbiotica, anche tramite la forza se necessario cosi come dimostrato da numerose testimonianze, foto e video, che porta al suo internamento in casa famiglia  o alla diretta ricollocazione presso il padre rifiutato, rectius del genitore di cui il minore ha paura ed il reset psicologico finalizzato al riallineamento paterno. Una cura i cui gravi danni sono già stati studiati dalle esperte Dallam e Silberg.
Mi chiedo come sia possibile che nel 2022 in Italia vengano ammesse queste torture.
A quasi un anno dal 3 novembre, giorno in cui i miei bimbi sono stati inghiottiti in questo sistema, posso vederli due volte al mese per un’ora in uno spazio neutro con una operatrice sempre presente, non li posso neanche sentire al telefono, neanche per Natale. I loro nonni, zii e cugini non li hanno mai potuti né vedere, né sentire.

Ma cosa dicono le linee guida scritte dal Ministero dell’Interno?
Il percorso di accoglienza assicura ai genitori, ai familiari e agli adulti di riferimento, quando non in conflitto con le esigenze di tutela, ogni forma appropriata di mantenimento e sviluppo dei legami affettivi e relazionali con il bambino in accoglienza etero-familiare.
E cosa mi dicono i miei bimbi?
Riporto una sola frase:
“Mamma per favore ti puoi abbassare un attimo la mascherina? Non ricordo più la tua faccia”

Lei pensa che i piccoli torneranno a casa?
Io credo che tutto ciò che è troppo ingiusto a un certo punto finisca. Stefania Spisni ha ripercorso una parte di questa storia e la vorrei condividere con voi:
C’è un fascicolo polveroso nello scantinato di un tribunale polveroso…. Assomiglia a tanti altri fascicoli polverosi sospesi nel tempo, anzi forse è proprio lo stesso fascicolo, che viaggia attraverso i tempi e la storia…. È il fascicolo della strega bruciata sul rogo perché donna malevola, manipolatrice e mentitrice… per Lei, e tutte le altre migliaia come Lei, Giovanni Paolo II chiese pubblicamente perdono… È il fascicolo di una ragazza irlandese e del suo bambino, ricoverati coattivamente in Casa famiglia, ah no, scusate, “mother and baby homes” (chiuse nel 1998): per loro il premier irlandese ha presentato un atto ufficiale di scuse nel 2021. È il fascicolo della madre aborigena e di suo figlia strappatole con la forza e l’inganno e messa in orfanotrofio o presso famiglie “bianche” (oltre cinquecentomila) e ancora, è il fascicolo della madre inglese e del suo bambino strappatole causa povertà ed inviato forzosamente proprio in Australia, nell’ambito del Child Migration Programme (oltre centotrentamila bambini/e) attivo fino a tutti gli anni ’70: per loro nel 2009 lo Stato Australiano ha chiesto formalmente perdono ed il governo britannico ha seguito nel 2010. È il fascicolo di una madre svizzera e del suo bambino strappatole con la forza e collocato in orfanotrofio o presso altre famiglie: per queste “pratiche assistenziali coercitive”, durate fino a tutti gli anni ’70, il Consiglio federale della confederazione elvetica ha presentato le proprie scuse alle vittime nel 2013 e previsto risarcimenti economici. È il fascicolo della madre Inuit e della madre Metis che sono state private forzosamente dei loro figli e figlie, deportate nelle scuole residenziali indigene, attive fino a tutti gli anni ’60: il Premier Trudeau ha presentato le scuse della nazione nel 2015 e indetto la Giornata per la verità e la riconciliazione per i bambini scomparsi. È il fascicolo di Rosemary Kennedy, a cui il padre fece praticare la lobotomia perchè dava scandalo in famiglia, e di tante come lei, compresi tanti bambini e bambine sottoposte a questa pratica fino al 1960 ed oltre: l’inventore di questa “tecnica” prese il premio Nobel, prima che la pratica fosse riconosciuta come “barbara” dalla nuova corrente della psichiatria. È il fascicolo di “Maria”, bambina italiana reclusa in manicomio la cui foto, legata nuda al letto come un Cristo in croce, pubblicata su Panorama nel 1970 fece scoppiare lo scandalo del manicomio dei bambini di Villa Azzurra a Torino: per tutto ciò che veniva fatto ai bambini lì dentro nessuno si scusò mai, ma il primario venne condannato a cinque anni. È il fascicolo manicomiale di Alda Merini: tutto ciò che lei e le altre compagne di sventura hanno subito è ben descritto dalle sue stesse strazianti parole. È il fascicolo di una madre a cui hanno strappato la figlia piccolissima, con l’accusa che un lontano domani avrebbe potuto alienarla al padre. Lei e tante madri come lei, insieme alle loro figlie e figli mai più rivisti, aspettano ancora Giustizia.

Back to mum di Elena Sorba

Il padre è stato condannato dopo le denunce?
Preferisco rispondere con i dati della Relazione sulla Vittimizzazione secondaria della Commissione al Senato sul femminicidio e ogni forma di genere.
Dalla relazione emerge che in sede di udienza presidenziale, nonostante le allegazioni di violenza fossero sempre presenti, solamente nel 15,6% dei casi i giudici hanno ritenuto di approfondire tale questione mentre nell’84,4% dei casi tale
aspetto è stato completamente trascurato.
Il mancato riconoscimento della violenza domestica denunciata dalle madri genera infatti un corto circuito nel sistema di protezione, in un susseguirsi di procedimenti giurisdizionali in cui non di rado quelle stesse madri vengono allontanate dai figli.
Le allegazioni di violenza domestica delle madri non sono prese in considerazione e le stesse si trovano spesso ad essere considerate a loro volta un ostacolo al rispetto del principio della bigenitorialità che fa passare in secondo piano.
Il tema si intreccia con l’applicazione della teoria della sindrome di alienazione parentale secondo cui uno dei due genitori induce il figlio al rifiuto dell’altro genitore.
E con una tensione, difficile da bilanciare tra due interessi: quello di assicurare una relazione affettiva tra  il  minore  ed  entrambi  i  genitori,  in  applicazione  della  legge  sull’affidamento condiviso (bigenitorialità) e quello di riconoscere i diritti dei minori e di proteggerli da qualsiasi forma di pericolo o violenza di carattere familiare e domestico in applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul.
I due interessi sono conciliabili soltanto qualora non vi sia violenza domestica, altrimenti esigenza primaria diviene quella di protezione del minore attraverso scelte adottate nel suo miglior interesse.
Le madri persone offese ed i loro figli diventano vittime due volte: dapprima della violenza e poi del suo mancato riconoscimento, in una vera e propria forma di vittimizzazione secondaria

Se potesse tornare indietro denuncerebbe ancora?
È una domanda che mi sono posta molte volte. La risposta è sì. Se guardo indietro era l’unica possibilità che avevo, per me e per i miei bimbi. Quindi, io non mi pento: io ho fatto quello che dovevo. Spero che un giorno, anche la giustizia torni a potersi chiamare Giustizia, con la G maiuscola, e torni a tutelare le vittime invece di accanirsi contro di loro come è successo a me e ai miei bambini e a tante altre mamme. Concludo l’intervista con una sensazione di sconfitta per tutte noi madri.  La conversazione lunga e faticosa di Elena, che ha dovuto ripercorrere i momenti drammatici dell’ultimo anno, mi ha scosso e accade che, mentre scrivevo, salvo una parte dell’intervista e che mia madre la legga. Anche lei prova amarezza e dolore, che quella ragazza vorrebbe abbracciare e confortare.
Oggi leggo gli atti e voglio riportare la dichiarazione dell’avvocata Susanna Bruschi:
“I due fratellini sono stati mandati in casa famiglia senza presupposti per portarli via dalla madre. Dopo un anno il tribunale dei minori deciderà la loro sorte. Pendenti il ricorso in cassazione per l’impugnazione del provvedimento e per opporsi alla richiesta di archiviazione. La mamma è stata riconosciuta da tutti gli attori coinvolti, anche la commissione affidi, come la persona che ha fatto tutto per tutelarli. Il 22 dicembre ci sarà una udienza al Tribunale minorile di Milano. I bambini potranno finalmente tornare a casa dalla mamma, dopo che erano stati allontanati da lei senza alcun motivo?” 

16 novembre 2022

3 thoughts on “Intervista di Cinzia Santoro a Elena Sorba scrittrice di “Back to mum cammino fino a voi”

  1. Forza Elena, sei coraggiosa e stai lottando come una leonessa per salvare i tuoi cuccioli. Tutti noi che ti stimiamo e ti vogliamo bene, ti siamo vicini per sostenerti, fino al ritorno a casa dei tuoi bimbi . Grazie per la tua battaglia per difendere anche tante altre mamme che non hanno voce. Sei una gran donna, ma soprattutto una mamma meravigliosa.

  2. Sono Paola ,posso solo dire che tutto questo fa parte dell’assurdo,che nessun essere umano dovrebbe passare momenti strazianti come quelli passati da Elena,e che nel 2022 la giustizia permetta che succedano.Dobbiamo riuscire a fare qualcosa per risolvere questa situazione.

  3. Ho scritto un libro “La maschera degli aiuti”, dove ho raccontato la mia storia e di mio figlio dentro una casa-famiglia, in cui siamo stati rinchiusi per lunghi 4 anni. Relativi danni economici e traumi subiti da parte di chi ci doveva aiutare.
    Edizioni Zerotre.

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