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Intervista a Vanya de Rosa che presenta il suo libro “Leggendo Murakami in danese”

di Francesco Guida

Vanya De Rosa  è docente di Lingua e Letteratura Inglese nei Licei e scrittrice. Con il racconto Il piccolo carro risulta finalista al Torneo Letterario Infinite Storie. La sua passione per il cinema l’ha spinta a  realizzare progetti di film making che la portano nel 2005 a vincere il Levante Film Festival nella sezione Corti Scolastici con Senti il battito.

Il suo primo romanzo, Ti racconterò una storia, partecipa al concorso Romanzi in cerca d’autore e si aggiudica come premio la pubblicazione per KOBO Mondadori. Dopo quattro anni la Casa Editrice Les Flâneurs  pubblica Leggendo Murakami in danese.

L’Intervista.

Come è nata la passione per la scrittura?

È nata come una prosecuzione naturale della passione per la lettura. Ho imparato a leggere a quattro anni e qualche mese dopo ho letto il primo libro, “Il giornalino di Gian Burrasca”. Mi sedevo al mio scrittoio rosso, sul balcone dell’interno di casa mia, nel quartiere Libertà di Bari, e leggevo ad alta voce. Ero talmente piccola che i vicini non credevano che leggessi davvero, pensavano che avessi imparato dei passi a memoria. Poi fu la volta di “Piccole donne”,  con il personaggio di Jo March da cui fui affascinata e ispirata, ma anche “Jane Eyre “, “Pollyanna”… Dopo aver letto tanti libri, mi resi conto che le storie inventate dagli altri non mi bastavano più cominciai a scriverle anch’io. A otto anni scrissi un racconto che ricopiai su un quadernetto. Lo feci avvolgere da mia madre in una carta dorata e lo regalai alla maestra. Quando lo posai sulla sua cattedra ero orgogliosissima. Il primo romanzo, invece, l’ho scritto a undici anni, in prima media, si intitolava “Valentina” e la protagonista aveva diciotto anni. Conservo ancora il quaderno dell’epoca, era il 1972/73. Ciò nonostante, presa da una sorta di inquietudine romantica ho sempre ambito alla (quasi) perfezione e, complice anche la mancanza di tempo fra lavoro e famiglia, ho scritto molti frammenti e romanzi incompiuti. Ho iniziato a inviare i miei lavori alle case editrici piuttosto tardi e ho pubblicato il mio primo romanzo nel 2017.

Il suo ultimo libro “Leggendo Murakami in danese” ha per protagonista un ragazzo di 15 anni che frequenta un liceo barese. Da cosa ha avuto origine questa storia?

Come ho scritto nella nota che fa da postfazione al libro, la storia è nata come idea per un romanzo, però io sentivo la necessità di misurarmi con altre sfide e con forme di espressione diverse dalla scrittura narrativa. Tra il 2000 e il 2002 avevo avuto una breve ma intensa esperienza come autrice televisiva. Non tutto era andato per il verso giusto e quell’esperienza, pur rimanendo indelebile nei miei ricordi, non si era conclusa in modo del tutto positivo, lasciandomi il desiderio di provarci ancora, questa volta dirigendo il gioco. In quegli stessi anni la scuola italiana cominciava a focalizzare l’attenzione sul cinema e sul prodotto audiovisivo in termini non solo di fruizione, ma anche di produzione creativa. Io insegnavo allora in quella che è stata la mia scuola per 20 anni, il liceo linguistico e I.T.E. “Marco Polo” di Bari. Mi dissi: perché non andare oltre? Perché non provare a realizzare dei corti in modo totalmente autogestito, con una sceneggiatura ideata da ragazzi e docenti e una videocamera amatoriale? Andai rimuginando l’idea per un po’, poi nel 2003/2004 partì il mio progetto intitolato “Film-making”. Assieme ad alcuni ragazzi di una seconda del liceo linguistico, usando come base il mio abbozzo di romanzo di qualche anno prima, scrissi la sceneggiatura. Per le riprese, durate 3 mesi, usammo due videocamere amatoriali e un microfono direzionale. Una delle alunne mi aiutò a filmare e a dirigere, e si rivelò davvero molto brava, mentre del montaggio mi occupai io. Il film fu selezionato nella sezione “Corti scolastici” del LevanteFilmFest 2005 e vinse.

Il corto si intitolava Senti il battito, come la prima versione del romanzo, e sviluppava solo il nucleo centrale della storia che a 15 anni di distanza è diventata Leggendo Murakami in danese.

Oggi si parla tanto di fragilità dei ragazzi, Giulio, il protagonista, mostra invece tanta forza. Infatti è lui che si fa carico del malessere del padre. E’ un messaggio che ha voluto mandare alle giovani generazioni?

Sì, ma non solo. Anche, e forse soprattutto, agli adulti che hanno a che fare con le giovani generazioni ricoprendo vari ruoli – genitori, insegnanti, parenti, ecc.. Qualcuno forse amerebbe definire il mio romanzo una storia di “resilienza”, io preferisco dire che la storia di Giulio e degli altri personaggi ruota proprio intorno a questi due punti: forza e fragilità. Non sono necessariamente incompatibili, anzi, spesso sono entrambe presenti nella stessa persona, come gli “opposti complementari” del poeta William Blake di cui si parla – non a caso – in un passo del libro. Sono opposti, ma coesistono. Anzi, l’uno non può esistere senza l’altro. I protagonisti sono tutti forti e fragili nello stesso tempo: Giulio, suo padre, Sara, la professoressa Martini… All’inizio Giulio non vuole che a scuola compagni e insegnanti lo trattino come un pacco imballato con la scritta “fragile”, va alla ricerca di normalità, proprio per poter “raccogliere tutta la forza disponibile per diventare di colpo adulto”. Nel corso della storia, grazie anche all’aiuto di Sara e di altri personaggi, si renderà conto che non bisogna aver paura di accettare e di esporre agli altri la propria fragilità, perché più gli altri la vedono, più riconoscono la forza che la accompagna.

 Oggi spesso la scuola è sotto accusa, invece nel suo romanzo è un punto di riferimento per Giulio. Al suo interno trova le persone che lo aiutano ad uscire dal tunnel: la prof di matematica, Sara (la ragazza di cui si innamora), il gruppo di amici. Cosa pensa oggi della scuola alla luce dell’attenzione che  pone nei suoi libri e del fatto che lei sia un’ insegnante?

Al di là delle problematiche specifiche legate ai tempi, ci sono aspetti della scuola e dei vari attori che la animano, a cominciare dai ragazzi, che non sono mai cambiati. Per fortuna, direi. La scuola di solito è il primo luogo in cui si affrontano esperienze di vita al di fuori del nucleo familiare e di socialità su larga scala.  Amicizie, amori, ma anche conflitti, con i coetanei e con adulti diversi dai propri genitori. Un luogo di formazione a tutto campo, di educazione formale, informale e persino trasmessa in modo involontario e non consapevole. A parole uno dei luoghi più odiati, nella realtà uno dei luoghi che ci sono più mancati di recente, fra pandemia, lockdown e DaD forzata. Un luogo in cui si intrecciano storie. Non a caso, è anche uno dei luoghi più usati e abusati in letteratura e “fiction” cinematografica e televisiva. Credo che nella scuola si giochi sempre una grande partita, in cui ognuno deve muoversi come compete al proprio ruolo, come negli scacchi, ma deve anche saper rompere gli schemi e magari accettare il rischio di farsi “mangiare” o di rimanere fermo, se serve a continuare il gioco e a salvare un pezzo della squadra, specialmente un pedone più debole, e a farlo progredire. Certo, la realtà della scuola è sempre più complessa, a noi docenti viene richiesto sempre di più anche in campi che non dovrebbero essere di nostra competenza, spesso i ruoli si sovrappongono e si confondono, e la gestione del tutto diventa di anno in anno più difficile. In questo momento, più che mai, serve sinergia fra le varie agenzie che concorrono all’educazione, alla formazione e al benessere psicologico degli adolescenti.

9 dicembre 2021

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