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Intervista ad Alessandro Faino lo scrittore che ispirato all’acciaieria tarantina ed alla sua terra d’origine

 

 

di Cinzia Santoro

Incontro Alessandro Faino in una splendida giornata di sole, lungo il bagnasciuga di una spiaggia incontaminata, posto ideale per chiacchierare con grande entusiasmo di scrittura, di vita e di umanità. Alessandro Faino è uno scrittore d’origine salernitana, nasce a Giffoni Valle Piana il paese del famoso Film Festival. Vive da anni a Massafra con la sua famiglia, moglie e tre splendidi ragazzi dei quali parla con grande intensità e trasporto.

 

Alessandro, come nasce la tua passione per la scrittura?

È difficile raccontare una passione che hai dentro fin da bambino. Diciamo che le parole, il loro suono, il loro embricarsi per esempio nelle poesie in rima, mi hanno appassionato fin da piccolo. Poi è sopraggiunta quell’urgenza che altri artisti ben conoscono: scrivere per me, cantare, suonare, fotografare e tanto altro ancora per altri. Infine, la genetica potrebbe aver un suo spazio, con un papà che scriveva saggi e discorsi politici, e un nonno pittore che ha scritto versi meravigliosi in vernacolo.

 

Nel tuo penultimo romanzo – il nuovo è in libreria da qualche settimana – è ancora protagonista il territorio jonico in cui vivi. È il tuo omaggio a questa terra che ti ha accolto, dal momento che le tue origini sono salernitane?

In qualche maniera posso affermare che è così. Come racconto spesso, nei dieci anni trascorsi nella direzione sanitaria di una casa di cura tarantina, passavo ogni giorno davanti all’acciaieria mentre percorrevo la via Appia. Osservare quel monumento moderno, oggetto di contraddizioni e opposte vedute, contenitore di universi antropologici e sociali, mi sollecitava ogni giorno un’emozione. Ho atteso degli anni, ma alla fine ho scelto il siderurgico, la città dei due mari e la provincia jonica quali scenari de Il giardino degli amori perduti. Un romanzo d’amore, che come note musicali, ho tentato di abbarbicare al pentagramma dell’acciaieria e dei suoi mille universi. Per raccontare non i consueti stereotipi sul territorio e sull’annoso conflitto salute lavoro, ma per trarne il bello: di un popolo, di una terra, di una speranza di sogno ma soprattutto di progetto di un futuro a tinte e sospiri meno nebulosi.

 

Come coniughi la tua vena artistica con la professione di medico igienista?

Pensando alla messe di medici scrittori, verrebbe da dire che un medico è per natura e cultura predisposto alla parola, parlata e scritta. Nel mio caso, la professione ma soprattutto la formazione medica sono uno strumento, una lente per leggere la società e di più le persone. Scrivere un libro è in fondo un po’come una cura offerta agli altri, e in questo senso la letteratura è stata sempre di fianco all’evoluzione sociale e alla denuncia del male. In fondo il bello e la medicina si prendono cura delle stesse persone.

 

La famiglia e l’amore sono trattati nei tuoi romanzi con grande rispetto e verità, mai edulcorati. Perché questa scelta?

Talvolta a me sembra il contrario, che cioè le mie storie passino troppo attraverso il vaglio della gentilezza e dell’attenuazione dei toni. Resta il fatto che una buona scrittura, dignitosa e ben congeniata, può mostrare la durezza dietro parole gentili. Se un personaggio è ben caratterizzato, nelle descrizioni e nella verosimiglianza dei dialoghi, è il lettore stesso che lo decreta attendibile e realistico. In tal senso, famiglia e amori sono i contenitori fisici e metafisici in cui si svolgono le storie, perché come raccontai una volta: la letteratura senza amore è curiosa, ma un romanzo senza sofferenza è alieno. Allora, meglio narrare con garbo la durezza della realtà, che di per sé è drammatica, o semplicemente emozionante.

 

Quali sono le fonti di ispirazione dei tuoi libri?

Dire: tanta lettura, è scontato. Ma io spesso traggo da me stesso e dalle mie riflessioni esperienziali la chiave per aprire nuove porte narrative. Leggere i classici italiani e stranieri, e aggiornarsi sulle tendenze letterarie correnti, può andar bene. Ma ritengo che se non hai il mondo dentro al cuore e dentro la testa, non puoi scrivere nulla, perché la letteratura ha certamente bisogno di fonti ma di più di un universo introspettivo che alimenta una weltanschauung, cioè una propria visione del mondo. Che prima che narrativa è filosofica, etica e in qualche maniera politica nel senso più nobile del termine.

 

Hai un posto privilegiato dove scrivere?

Ho avuto necessità di un posto riservato, un pensatoio, fin quando i miei tre figlioli si son fatti grandicelli e han smesso di chiedere di giocare con me mentre il papà scriveva. Da qualche anno invece cerco solamente il silenzio e la solitudine interiori, e scrivo prevalentemente a un piccolo pc che ho messo nella camera da letto di fianco ai libri a cui tengo di più. Come non disdegno in certe circostanze di appuntare a matita ispirazioni del momento che provo a catturare ovunque mi trovi. La domanda sul luogo dove si scrive rimanda alla questione della ispirazione e delle motivazioni dello scrivere. Faccende ben più complesse e interessanti.

 

Hai ricevuto diversi riconoscimenti in ambito letterario. Cosa hai provato?

Tanta soddisfazione, perché se il premio per me è vivere e scrivere, ricevere un riconoscimento per un romanzo è come guadagnarsi il consenso di molti lettori che ti hanno letto e gli è piaciuto il libro. Detto questo, credo ai concorsi letterari a cui partecipano scrittori in divenire, come me, ma non vedo il senso di concorsi prestigiosi quali lo Strega, nei quali non vince un autore e la sua narrativa ma il romanzo che la intellighenzia ha deliberato vincitore, spesso secondo dinamiche di mercato e di supremazia culturale o presunta tale.

 

Nel nuovo lavoro,  IL CONFINE DEI GIORNI, è il legame con la tua terra d’origine l’ispirazione più forte nella scrittura del romanzo?

Il legame alla mia Salerno, alla provincia e alla sua storia sono certamente le ragioni sentimentali del romanzo Il confine dei giorni. Tuttavia vi è un’urgenza più superficiale ma non meno fondamentale, il tentativo cioè di rispondere alla domanda che mi pongo fin da ragazzo, allorché conobbi il famoso zio d’America: qual è il senso di appartenenza all’Italia dei discendenti degli emigrati che attraversarono l’oceano ai primi del Novecento? In altre parole, cos’è il senso patrio, se esiste, e cosa rappresenta per gli italoamericani nati negli Stati Uniti la ricerca delle origini e del senso di identità?

 

Oltre alla promozione del nuovo libro, cosa bolle in pentola per il futuro?

Dopo il debutto a Massafra nel corso della rassegna Oltre il maggio dei libri, curata dalla consigliera Graziana Castellano, e la presentazione romana del 26 settembre, il romanzo Il confine dei giorni sarà al centro di un’attiva promozione, seguendo il calendario del desiderabile e del possibile. C’è dell’altro che bolle in pentola? Certamente: posso anticipare che per Natale mi faccio un regalo per i miei primi dieci anni di attività letteraria. Si tratta della riscrittura, per i tipi di Antonio Dellisanti Editore, de L’imperfetto amore, il mio romanzo d’esordio uscito nel 2010.

 

Infine, tre buone ragioni per leggere i romanzi di Alessandro Faino.

La prima ragione è perché i miei romanzi hanno al centro storie d’amore e problematiche sociali (i disturbi del comportamento alimentare nei bambini, la questione ILVA, l’emigrazione e il sogno americano). La seconda ragione è perché lavoro da anni sulla mia scrittura e sul tentativo non soltanto di buttare giù belle storie, ma pure di scriverle bene. Infine vi è un motivo personale e relazionale, nel senso che la promozione e presentazione dei miei romanzi è un’arena nella quale partecipano con passione sia i lettori che mi hanno scelto sia lo stesso autore, che a ogni nuova storia aggiunge un di più del proprio vissuto, e lo condivide con chi vorrà prestargli attenzione e percorrerlo con lui.

14 settembre 2020

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