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Intervista a Sara Montinaro. Le Spose Daeş e il ruolo della donna nell’Isis.

di Cinzia Santoro

Tra i conflitti più brutali di questo secolo, quello siriano ha portato all’attenzione delle cronache internazionali un fenomeno truce e inaspettato, quale la nascita del sedicente stato islamico. Protagoniste assolute di questo terribile momento storico, le donne, europee e non, che hanno conquistato un posto sul proscenio mondiale.  Che siano state, donne curde, che hanno imbracciato le armi per difendere la Siria del Nordest e il mondo intero, o spose Daeş, che da ogni parte della terra hanno attraversato il confine turco per unirsi ai foreign fighters o le donne yazide, vittime del brutale crimine della schiavitù sessuale, tutte sono state protagoniste.

Con Sara Montinaro, autrice del libro Daeş La banalità del male, edito da Meltemi, proviamo a comprendere come vivono oggi quelle donne che hanno abbracciato i valori dello stato islamico. Il libro è un accurato viaggio nel cuore dell’organizzazione dell’Isis  e del ruolo della donna all’interno della sua organizzazione. Interessanti sono le riflessioni che l’autrice suggerisce al lettore che vuole meglio comprendere l’Islam e il suo mondo, fino alla nascita dello stato islamico  Sara è un’attivista politica e dei diritti umani, oggi collabora alla realizzazione di alcuni progetti in Rojava, nella Siria del Nordest. In precedenza è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo turco. Laureata in Giurisprudenza, specializzata in Diritti Umani, immigrazione e diritto internazionale ha partecipato a numerose missioni nei Balcani, in Grecia, in Turchia, in Kurdistan iracheno, e in Sud Africa.

L’intervista

Chi sono le spose Daeş?

Per spose Daeş intendo tutte quelle donne, europee e non, quindi anche irachene e siriane, che negli anni del conflitto si sono unite ai miliziani dell’Isis, per sostenere la nascita del Califfato. Oggi sono detenute nei campi nel Nord Est della Siria, sotto la protezione delle milizie democratiche siriane. Solo nel campo di Al-Hol ci sono circa 62000 persone, tra donne e bambini.  Diverse sono riuscite a scappare da quanto i militari delle forze democratiche siriane sono impegnati nei combattimenti sul fronte turco. Nei campi, i Daeş si sono riorganizzati con azioni mirate. In questi giorni un blitz delle forze democratiche ha permesso l’arresto di quattro uomini che tra Kamlishi e Deir Al Zor, aiutavano le spose Daeş a scappare da Al- Hol. È chiaro che da una parte, vi sono criticità nel controllo del campo da parte delle forze democratiche siriane e dall’altra, una presenza sempre più forte dei Daeş che impongono la loro forza crescente. La situazione è davvero molto complicata. Solo nei primi quindici giorni di gennaio si sono verificati sei omicidi, tra cui una decapitazione. Nel campo di Al- Hol la maggior parte dei detenuti arriva da Baghuz, roccaforte dell’Isis, ultima a resistere e a cadere. Costoro hanno creduto e combattuto per lo stato islamico con tenacia e fiducia, per cui non accettano alcun programma di deradicalizzazione. Quotidianamente si assiste a un’ escalation di violenza che preoccupa le forze democratiche.

Cosa desiderano le spose Daeş e cosa sognano ora che lo Stato Islamico è stato sconfitto?

Le donne Daeş hanno sogni e desideri diversi, ho intervistato alcune di loro detenute nei campi del nord est della Siria e ci sono: quelle che desiderano rientrare in Europa; altre vogliono restare qui e assolutamente non sognano il rientro nei loro paesi d’origine. Quest’ultime sono consapevoli della persecuzione giuridica e dell’arresto immediato, una volta rientrate in patria.  Penso che sia molto difficile generalizzare, alcune spose Daeş hanno espresso il desiderio del ritorno del Califfato in questi territori. Hanno affermato:
“Noi siamo in attesa, il Califfato ritornerà, e noi saremo qui ad aspettare”. Tra le europee che vorrebbero rientrare ci sono ragazze pentite di aver attraversato il confine turco-siriano per unirsi ai guerriglieri dell’Isis. C’è da fare una riflessione, molte fingono il ravvedimento, alfine di ottenere un trattamento migliore all’interno dei campi di detenzione. Tuttavia ci sono degli indicatori precisi che ci evidenziano se la donna ha intrapreso un percorso di cambiamento, ad esempio se mandando i bambini a percorsi scolastici organizzati dalle forze Democratiche Siriane del Nord.  Ma se la volontà di aderire al progetto è falsa, le donne indottrinano i più piccoli attraverso la lettura del corano, organizzata nelle loro tende, senza mandare i propri figli a scuola. La realtà purtroppo è quella che la maggior parte delle donne non è pentita e istruisce fin dalla più tenera età i bambini con i precetti dello stato islamico.

Chi sono i bambini nei campi di detenzione?

Nei campi detentivi ci sono migliaia di bambini e bambine: in minoranza sono figli delle donne yazide, nati e cresciuti in regime di schiavitù, durante gli anni dello Stato Islamico, che tanto si è accanito contro le donne yazide. Questi piccoli hanno ricevuto dei training ideologici tali da piegarli alla volontà dei Daeş. Per loro è difficile capire le origini, da dove provengono e che significa essere yazidi. Questi bambini vivono in strutture separate, e seguono percorsi specifici di riabilitazione. Talvolta si trovano questi bimbi tra i cuccioli del califfato, in quanto le mamme hanno paura di denunciare la verità, per le ritorsioni che possono subire da parte delle altre donne. Solo se si armano di coraggio, riescono a dichiarare ai responsabili del campo, in particolare quello di Al Hol,  che esse sono donne yazide che vivono in regime di schiavitù.
Poi ci sono i bambini delle famiglie Daeş. Nei campi, il califfato è riuscito ad riorganizzarsi, così come dichiarano le Nazioni Unite, le autorità locali siriane e i responsabili dei campi detentivi. Daeş ha la capacità di strutturarsi in modo tale che le donne vadano di tenda in tenda a predicare i valori e i principi del corano. Diverse volte, nelle tende sono state sequestrate bottiglie che contenevano gas, pronte per essere esplose. Questi episodi sono gravi, perché dovrebbero essere commessi dai bambini che sono il futuro del paese , giovanissimi indottrinati per mano delle loro mamme e che non si sottopongono ai percorsi di “deradicalizzazione” e non vanno a scuola.
Poi parliamo dei “cuccioli del califfato, ragazzi giovanissimi fermati sul campo di battaglia, durante scontri a fuoco, mentre combattevano. Nonostante la loro  età si sono macchiati di crimini e atrocità come gli adulti. Le loro azioni sono quelle dei combattenti in un conflitto. Si tratta di ragazzini cresciuti con training ideologici e militari durissimi, alfine di acquisire capacità di combattimento.
Per ogni tipologia di bambino è necessario un percorso riabilitativo che richiede risorse e competenze specifiche affinché si possa intervenire in modo appropriato ed efficace.

Cosa ci riserva il futuro nel conflitto siriano e in campo internazionale?

Essere silenti può diventare sinonimo di complicità. Proclamare la sconfitta dell’Isis è fuorviante e non veritiero. Daeş si sta riorganizzando, oltre l’aspetto militare, è sull’aspetto culturale che bisogna intervenire. Come società ci dobbiamo assumere le nostre responsabilità. Un modo potrebbe essere quello di aprire un dibattito pubblico, capire cosa fare e come comportarci con i foreign fighters, le spose jihadiste e i loro figli. Il conflitto continua, la Turchia si appresta a essere il nuovo melting pot dei movimenti islamisti, alimentando sogni imperialistici e inaugurando l’era di un nuovo califfato. In occidente mi auguro un cambiamento di mentalità. Ed è proprio a partire dal cambiamento che ciascuno di noi può avere un ruolo attivo.

08 febbraio 2021

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