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Le mutilazioni genitali femminili: una piaga che lede la dignità e la salute delle donne

di Sabrina Pasquarelli

 

I diritti umani spettano a ogni essere umano, senza alcuna distinzione.   Tuttavia, un limite alla loro applicazione universale è costituito dalle gravi discriminazioni subite in passato, e in parte anche oggi, da ampi gruppi di individui su base razziale, etnica, religiosa o sessuale in Paesi culturalmente più “arretrati”: si pensi ad alcuni Stati islamici, i quali comprimono fortemente certi diritti individuali, in particolare quelli spettanti alle donne.

Sorge, così, un conflitto tra alcuni diritti umani, anche di natura fondamentale, e il diritto alla diversità culturale, regolamentato:

  • a livello regionale, nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE;
  • a livello universale, nella Convenzione UNESCO del 20 ottobre 2005 sulla protezione e promozione della diversità culturale.

L’articolo 2 di tale Convezione, però, stabilisce un limite: non è possibile invocare il diritto alla diversità culturale al fine di violare i diritti umani fondamentali o di limitarne la portata. La norma esclude, quindi, la legittimità di condotte giustificate dalla diversità culturale che implichino, tra le altre cose, la violazione dei diritti delle donne.

A tal proposito, le mutilazioni genitali femminili (MGF) rientrano tra gli usi consuetudinari considerati vietati, ma tuttora seguiti sia in alcuni Paesi africani, appartenenti soprattutto al Corno d’Africa, sia in forma più limitata, in alcuni Stati occidentali in cui risiedono comunità di individui provenienti appunto dai suddetti Paesi.

Il divieto di tali pratiche è previsto nell’articolo 5 del Protocollo dell’11 luglio 2003, addizionale alla Carta africana dei diritti umani e dei popoli del 1981 e relativo alla tutela i diritti della donna in Africa. In questa disposizione, si richiede appunto agli Stati parti di proibire, con misure legislative e sanzioni, ogni forma di mutilazione genitale femminile.

Fiore del Deserto- storia scritta da Waris Dirie

Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, nel 2020 più di 4 milioni di bambine tra i 4 e i 14 anni rischiano di subire tale trattamento in ben 30 Paesi, insieme alle pesanti conseguenze fisiche e psicologiche che ne derivano e che possono portare persino alla morte. Talvolta, le mutilazioni vengono praticate a neonate di pochi giorni, come accade nello Yemen e a bambine di meno di un anno, nei casi dell’Eritrea e del Mali.

Si tratta, dunque, di una piaga pericolosa e difficile da estirpare.

Come spiega l’Unicef, alla base delle mutilazioni ci sono motivazioni e convinzioni di diverso tipo, che si mescolano tra loro:

  • ragioni sessuali: soggiogare o ridurre la sessualità femminile;
  • ragioni sociologiche: ad esempio iniziazione delle adolescenti all’età adulta, integrazione sociale delle giovani, mantenimento della coesione nella comunità;
  • ragioni igieniche ed estetiche: in alcune culture, i genitali femminili sono considerati osceni e portatori di infezioni;
  • ragioni sanitarie: si pensa, a volte, che la mutilazione favorisca la fertilità della donna e la sopravvivenza del bambino;
  • ragioni religiose: molti credono che questa pratica sia prevista da testi religiosi (Corano).

Ad eseguire le mutilazioni sono essenzialmente donne: levatrici tradizionali o vere e proprie ostetriche, i cui reddito e status sociale sono direttamente connessi all’esito di questi interventi.

Waris Drie

Come accennato in precedenza, le MGF riguardano soprattutto gli Stati del continente africano, quali l’Egitto o la Somalia, che è stata definita dall’antropologo De Villeneuve le pays des femmes cousues (il paese delle donne cucite). Sono invece praticate in misura minore in Nigeria, Niger, Uganda.

Molti Paesi si sono dotati di leggi contro le MGF, ma le convenzioni sociali e culturali sono più forti. In Egitto, ad esempio, dal 2008 le mutilazioni sono illegali (la pena per chi compie il reato è la detenzione dai tre mesi ai tre anni e una multa elevata). Da allora la pratica ha cominciato a diminuire, ma è rimasta estremamente diffusa come mezzo di “purificazione” di una ragazza prima del matrimonio. In Nigeria, è stata ufficialmente vietata nel giugno 2015.

Lya Kebede

Anche l’Europa non è immune da questo problema. Spesso le ragazzine straniere che vivono in Italia o sono nate qui, vengono costrette a subire questa pratica quando ritornano nei loro Paesi di origine per visitare i parenti.

 

Una delle attiviste anti-MGF più note al mondo è Waris Dirie. Sopravvissuta alla mutilazione, a soli 13 anni si diede alla fuga dalla Somalia per evitare un matrimonio combinato. Dopo aver attraversato il deserto, riuscì a raggiungere prima la nonna in Mogadiscio e poi il Regno Unito dove, grazie alla sua bellezza statuaria, venne accolta nel mondo della moda. Ha raccontato la sua storia nell’autobiografia  Fiore del deserto, da cui è stato tratto l’omonimo film, interpretato dalla modella Liya Kebede: un invito a prendere coscienza di questo fenomeno e ad agire affinché un giorno possa conoscere la parola fine.

30 aprile 2020 

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