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I Promessi Sposi al Teatro Abeliano di Bari nell’adattamento di Michele Sinisi: “promette” tanto  ma mantiene poco…

di Romolo Ricapito

Al Teatro Abeliano di Bari, per ben quattro giorni consecutivi, dal 18 al 21 gennaio, “I Promessi Sposi” con la Compagnia Elsinor (centro di produzione teatrale) per la regia e l’adattamento di Michele Sinisi.

Alla riduzione teatrale ha collaborato Francesco Maria Asselta.
Dal’ingresso degli spettatori entra Don Abbondio (Stefano Braschi) a luci ancora accese: recita il suo monologo sull’incontro fatale coi Bravi.
Questo espediente della regia è teso a coinvolgere immediatamente il pubblico, dato che l’attore recitante si rivolge ad esso salendo le scale e trattenendosi in platea.
Una telecamera di Rai Tre intanto documentava il tutto (serata del 18, giovedì).
Sopraggiunge una scenografia da cantiere, o da centro sociale.
Sui pannelli colore argento una scritta cubitale, rossa, recita “non s’ha da fare”
Compaiono due Bravi, vestiti in maniera attuale, completo giacca e pantalone simil-Armani, capigliatura bicolore  (rossa e nera) e occhiali da sole.
abelianoE’ chiaro che si tratta di una maniera di mischiare il classico (il monologo originale dal testo del Manzoni) col moderno.
Questo può piacere o meno, ma si rivelerà, come vedremo più avanti, un’arma a doppio taglio.
Ecco Renzo Tramaglino in jeans e sahariana , interpretato da Donato Paternoster. Prima di lui però Perpetua, in una versione giovanile .
 La scelta di rispettare il romanzo di Manzoni con una traduzione compiuta e curata nei contenuti, ma vivacizzata da una discreta direzione degli interpreti e da messe in scena innovative inizialmente convince, anche dopo l’apparizione di Lucia (Giulia Eugeni)  con i pattini ai piedi sostituiti alle scarpe rosse da ginnastica e di un’Agnese in giaccone di pelle nera.
Ma l’Azzeccagarbugli vestito con un abito a foggia di mago, con inserti argentati, è una variazione molto discutibile: egli parla in dialetto pugliese strappando le risate del pubblico, ma di quel pubblico facilmente suggestionabile da alcune trovate facili e ormai consunte di certo teatro regionale che anche in questo caso vuole reclamare per forza di cose il suo marchio di denominazione…incontrollata.
Ma il peggio è costituito da un Fra Cristoforo trasformato in un personaggio qualunque o “la qualunque” con giubbotto e cappuccio, barba lunga tanto da sembrare un anonimo proletario.
Tra l’altro l’attore scelto, dalla statura sotto la media, non è adatto a un ruolo così pregnante e fondamentale per la storia.
Insomma si paga (e molto) l’avere rifiutato il saio come vestizione.
Tra l’altro è da scartare anche la scena durante la quale uno dei Bravi canta a piena voce una canzone popolare, una sorta di mazurka di periferia.
La commedia dunque devia dal sobrio iniziale, per virare decisa verso  una lettura da musical aderente  a certi recenti modelli cinematografici che vedono, ad  esempio,  il film Flashdance trasformato in una farsa in stile napoletano.
Don Rodrigo è interpretato da una donna, Stefania Medri, che indossa un completo da uomo verde.
La scelta della femminilizzazione risponde alla logica di far diventare un personaggio classico qualcosa d’altro, ossia invertirne il sesso per esplorare zone d’ombra.
Questa variatio  transgender si rivela infelice soprattutto per il dialogo a base di turpiloquio che ci mostra “Donna Rodrigo” esprimersi quasi come uno  scaricatore portuale. A ciò fa seguito seguente doppio quesito:  “E’ bona? E’ figa?”. Il don si riferisce in questo caso a Lucia Mondella.
Viene introdotto sempre sull’onda dell’ imitare un musical, il brano Obsesion, degli Aventura,  il cui accompagnamento da parte di un “Bravo” scatena qualche risata fuori luogo, o isterica, di  diverse  spettatrici.
Ecco dunque la rappresentazione del matrimonio a sorpresa, quindi un video nel quale alcuni extracomunitari recitano parti auliche e descrittive dell’opera manzoniana.
Si capisce poco, mentre alla fine del lungo filmato si legge”welcome“: benvenuti.
E’ chiaro il messaggio politico del regista, che probabilmente si schiera a favore delle popolazioni straniere portate nel nostro paese dagli sbarchi illegali  sulle coste.
Ma non si capisce cosa c’entri con tutto  il resto.
Il compiacimento  dei vari cambiamenti in corso d’opera è evidente, ma altrettanto evidentemente   si è perso il filo conduttore nel presentare una storia antica, ma non antiquata, i cui contenuti immortali vengono invece relegati a vanesi balletti e a battute poco convincenti, o di gusto dubbio.
La Monaca di Monza: convince maggiormente il monologo  di Gertrude che spiega come è stata costretta alla non-scelta del suo  convento di clausura.
Ella subisce un interrogatorio sulle ragioni della sua vocazione non da un padre priore ma da una Lucia che si immerge in questo ruolo mentre si dondola su un’altalena.
La canzone Running Up That Hill di Kate Bush in versione maschile conclude il primo atto.
La seconda parte vede in scena un nano che fa tanto David Lynch e Twin Peaks, ma che non ci azzecca nulla, mentre l’assalto ai forni è presentato come una banale cronaca da telegiornale.
Questa discontinuità è un prosieguo delle dissacrazioni, delle compulsioni innovative e delle riletture che completamente sciolte nella prima parte tentano nel secondo atto una sorta di alternanza almeno più ordinata.
Il discorso rientra col bel dialogo tra la vecchia servitrice dell’Innominato e Lucia, mentre il regista si ritaglia un ruolo, quello appunto del nobile identificato dal Manzoni con la figura di Francesco Bernardino Visconti.
L’apparizione del Cardinale Borromeo in splendida veste rossa non stona e riporta un po’ di decoro in una commedia tra il pasticciato e il pasticciaccio.
C’è anche un Don Rodrigo, ormai morente, in versione nuda ma il seno dell’attrice stesa su una sorta di scala non stona.
La sua nudità vuole mostrare un potente ormai ex tale, cioè vinto e indifeso.
L’atmosfera didattica dell’opera viene celebrata con un’interrogazione scolastica nella quale si parla dei Lanzichenecchi, dell’origine e della diffusione del morbo della peste bubbonica nel Settentrione.
Viene letto l’episodio splendido della madre di Cecilia, la bimba morta per la pestilenza, accudita dalla genitrice che amorevole la destina alla cura dei Monatti.
La totalità dell’operazione. però, si ravvisa come una rilettura molesta, fuori luogo, in certe parti lunga fino allo spasimo e che si sostanzia in una forma di teatro contemporaneo malriuscito, presuntuoso e pretestuoso.
Tutto questo è rappresentato ancora di più dall’inutile e fastidiosissimo tip tap finale di Fra Cristoforo che sembra non finire mai, prima che i vari interpreti reclamino gli applausi sulle note di Singin’ in the rain.
19 gennaio 2018

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