L’altra metà della storia: polpettone inglese di regista indiano che imita Proust e Ishiguro, vale solo la Rampling Cinema 17 Ottobre 2017 t di Romolo Ricapito L’altra metà della storia è un film britannico diretto dal regista indiano Ritesh Batra il cui titolo originale suona però come “Il senso di una fine” ed è tratto dal romanzo di Julian Barnes, appunto”The sense of ending” vincitore di un Booker Prize. Trattasi di una storia nostalgica ed evocativa la cui fascinazione però è molto annacquata da una sceneggiatura e da una regia troppo classiche e formali, oltre che complicate. Inoltre il presente del personaggio principale interpretato da Jim Broadbent è una sorta di viale del tramonto troppo tranquillo: l’uomo gestisce da pensionato un negozio nel quale vengono vendute macchine fotografiche usate, ha un’unica figlia, incinta, che intende crescere la nuova creatura da sola e una ex moglie avvocato comprensiva e affettuosa, seppure apparentemente distaccata. La noia è il motore che spinge Tony (Broadbent) a pensare al passato, quando da giovane liceale si invaghì di una bionda e bellissima compagna di classe, Veronica. La nostalgia di quel tempo idealizzato si attua anche a causa di una sorta di eredità che la madre di tale vecchia conoscenza (Sara) gli lascia, a sorpresa , costituita da un misterioso diario. Inoltre Adrian, il migliore amico del protagonista, suicidatosi, ebbe una relazione con Veronica che ispirò a Tony, geloso, una perfida lettera nella quale malediva la love story nascente tra i due e la loro futura prole. Lo stesso Tony però nelle rimembranze nostalgiche, appare un inesperto in amore che rifiuta il corpo carnale dell’amata per suoi troppi imbarazzi, tabù e insicurezze. Va detto che l’opera è strutturata in modo da assomigliare in qualcosa a Quel Che Resta del Giorno dello scrittore neo-premio Nobel Kazuo Ishiguro, ma senza avvicinarsi minimamente a quel capolavoro che fu rappresentato al cinema con l’interpretazione di uno straordinario Anthony Hopkins. E poi l’influenza di Proust si fa sentire: Tony ha nostalgia di immagini precise del passato, come la madre di Veronica (Sara) che lo saluta sotto il glicine. Anche le schermaglie con l’amata Veronica assurgono a madeleines proustiane. Epperò questa nostalgia, che sembra appunto il rifugio di un fallimento esistenziale, non è condivisa da Veronica che ricompare in scena, settantenne, nella personificazione della splendida Charlotte Rampling. La Rampling, che ha a disposizione soltanto il secondo tempo, è un personaggio concreto e credibile. Ella pone il suo vecchio amico Tony di fronte alla realtà : il suo fallimento esistenziale, la sua nullità ma, soprattutto, la sua cattiveria. Infatti la lettera insultante, che la donna gli restituisce, ha segnato il destino dei protagonisti. Ma il personaggio di Veronica è concreto anche perché ella si occupa attivamente di volontariato, dedicandosi a un fratello molto più giovane, disabile mentale. In pratica le donne del film, rappresentate anche dalla figlia Susie (Michelle Dokery) e dalla ex moglie di Tony (Margaret, interpretata da Harriet Walter ) sono personaggi reali, generosi e vitali. Invece il lezioso protagonista , perduto nel suo passato (troppo volatile e reso prezioso soltanto dall’essenza della giovinezza vissuta come sterile rimpianto) è un personaggio se non sgradevole, nemmeno positivo. Il film non vola mai: il suo rigore, la sua eleganza prettamente formale, il suo dipanarsi artificioso non commuovono, non prendono e non emozionano. Insomma L’altra metà della Storia sembra un’esercitazione registica per un pubblico senile e non un’opera che si caratterizza per particolari spunti innovativi da offrire alla platea. Anzi, la noia potrebbe prendere il sopravvento, annullando qualche elemento positivo che però si mette in luce nel finale. Jim Broadbent non spicca, nonostante abbia all’attivo un Oscar (come non protagonista) assegnatogli nel 2002. Decorativi i giovani attori che interpretano i protagonisti da giovani. A spiccare è soltanto la fantastica Charlotte Rampling.
t di Romolo Ricapito L’altra metà della storia è un film britannico diretto dal regista indiano Ritesh Batra il cui titolo originale suona però come “Il senso di una fine” ed è tratto dal romanzo di Julian Barnes, appunto”The sense of ending” vincitore di un Booker Prize. Trattasi di una storia nostalgica ed evocativa la cui fascinazione però è molto annacquata da una sceneggiatura e da una regia troppo classiche e formali, oltre che complicate. Inoltre il presente del personaggio principale interpretato da Jim Broadbent è una sorta di viale del tramonto troppo tranquillo: l’uomo gestisce da pensionato un negozio nel quale vengono vendute macchine fotografiche usate, ha un’unica figlia, incinta, che intende crescere la nuova creatura da sola e una ex moglie avvocato comprensiva e affettuosa, seppure apparentemente distaccata. La noia è il motore che spinge Tony (Broadbent) a pensare al passato, quando da giovane liceale si invaghì di una bionda e bellissima compagna di classe, Veronica. La nostalgia di quel tempo idealizzato si attua anche a causa di una sorta di eredità che la madre di tale vecchia conoscenza (Sara) gli lascia, a sorpresa , costituita da un misterioso diario. Inoltre Adrian, il migliore amico del protagonista, suicidatosi, ebbe una relazione con Veronica che ispirò a Tony, geloso, una perfida lettera nella quale malediva la love story nascente tra i due e la loro futura prole. Lo stesso Tony però nelle rimembranze nostalgiche, appare un inesperto in amore che rifiuta il corpo carnale dell’amata per suoi troppi imbarazzi, tabù e insicurezze. Va detto che l’opera è strutturata in modo da assomigliare in qualcosa a Quel Che Resta del Giorno dello scrittore neo-premio Nobel Kazuo Ishiguro, ma senza avvicinarsi minimamente a quel capolavoro che fu rappresentato al cinema con l’interpretazione di uno straordinario Anthony Hopkins. E poi l’influenza di Proust si fa sentire: Tony ha nostalgia di immagini precise del passato, come la madre di Veronica (Sara) che lo saluta sotto il glicine. Anche le schermaglie con l’amata Veronica assurgono a madeleines proustiane. Epperò questa nostalgia, che sembra appunto il rifugio di un fallimento esistenziale, non è condivisa da Veronica che ricompare in scena, settantenne, nella personificazione della splendida Charlotte Rampling. La Rampling, che ha a disposizione soltanto il secondo tempo, è un personaggio concreto e credibile. Ella pone il suo vecchio amico Tony di fronte alla realtà : il suo fallimento esistenziale, la sua nullità ma, soprattutto, la sua cattiveria. Infatti la lettera insultante, che la donna gli restituisce, ha segnato il destino dei protagonisti. Ma il personaggio di Veronica è concreto anche perché ella si occupa attivamente di volontariato, dedicandosi a un fratello molto più giovane, disabile mentale. In pratica le donne del film, rappresentate anche dalla figlia Susie (Michelle Dokery) e dalla ex moglie di Tony (Margaret, interpretata da Harriet Walter ) sono personaggi reali, generosi e vitali. Invece il lezioso protagonista , perduto nel suo passato (troppo volatile e reso prezioso soltanto dall’essenza della giovinezza vissuta come sterile rimpianto) è un personaggio se non sgradevole, nemmeno positivo. Il film non vola mai: il suo rigore, la sua eleganza prettamente formale, il suo dipanarsi artificioso non commuovono, non prendono e non emozionano. Insomma L’altra metà della Storia sembra un’esercitazione registica per un pubblico senile e non un’opera che si caratterizza per particolari spunti innovativi da offrire alla platea. Anzi, la noia potrebbe prendere il sopravvento, annullando qualche elemento positivo che però si mette in luce nel finale. Jim Broadbent non spicca, nonostante abbia all’attivo un Oscar (come non protagonista) assegnatogli nel 2002. Decorativi i giovani attori che interpretano i protagonisti da giovani. A spiccare è soltanto la fantastica Charlotte Rampling.